LetteraturaPrimo Piano“Darkness”, una poesia di George Gordon Byron scritta durante “l’anno senza estate”

Lucia Cambria16 Novembre 2020
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In tempi come quelli che stiamo vivendo, sembra quasi naturale pensare di assistere al verificarsi di una sorta di Apocalisse, della fine del mondo come lo abbiamo sempre conosciuto e, in effetti, sembra davvero che ogni cosa sia saltata fuori dal suo posto, lasciando un senso di smarrimento e di straniamento.

Questi sono gli stessi pensieri che devono aver toccato George Gordon Byron quando nel luglio del 1816 compose Darkness, una poesia sulla fine del mondo. Il 1816 è passato alla storia come “l’anno senza estate”, poiché si verificarono della anomalie climatiche provocate dall’eruzione del vulcano Tambora, nell’isola di Sumbawa (attuale Indonesia), avvenuta dal 5 al 15 aprile del 1815. La temperatura del globo si abbassò perché la luce solare non riusciva ad attraversare l’atmosfera a causa delle polveri e dei gas pesanti. Tra il 1790 e il 1830, inoltre, ebbe luogo il cosiddetto minimo di Dalton, ovvero un periodo di bassa attività solare. Di conseguenza si verificarono grandi tempeste, piogge, inondazioni dei fiumi e incessanti nevicate estive.

Byron scrisse di aver avuto l’ispirazione per comporre questa poesia a Ginevra dove veniva celebrato un giorno nel quale le candele venivano accese come se fosse mezzanotte. Si era persino previsto che il sole si sarebbe definitivamente spento il 18 luglio e questa “profezia” causò rivolte, suicidi e fervore di carattere religioso in tutta Europa.

In questi ottantadue versi composti in “blank verse”, Byron esprime tutto il timore nei confronti del futuro dell’umanità. Si inizia con una descrizione del sole, delle stelle e della luna che si spengono, condannando all’oscurità il pianeta:

 

Ho fatto un sogno che non era affatto un sogno.
Il lucente sole s’era spento e le stelle
Vagavano tenebrose nello spazio eterno,
Senza raggio e senza meta, e la gelida terra
Oscillava cieca e oscura nell’aere senza luna;

 

La popolazione inizia allora a bruciare tutto quello che trova in modo da procurarsi la luce. Tutti sono uguali di fronte a questa oscurità; re e contadini soffrono tutti allo stesso modo:

 

E vivevano tra i roghi – e i troni,
I palazzi dei re incoronati – le capanne,
Le abitazioni di tutti coloro che ancora vi dimoravano
Vennero arse per illuminare

 

Tutti muoiono di stenti, fino a che restano solo due uomini, i quali divengono nemici e si incontrano al cospetto di un altare in fiamme, ai cui piedi sono stati bruciati oggetti sacri di vario genere. Ciò come segno che non solo non esistono più i ceti sociali, ma nemmeno le credenze religiose:

 

La folla morì di fame a poco a poco; ma due
Di una grande città sopravvissero,
E divennero nemici: si incontrarono accanto
Alle braci morenti di un altare
Dove era stata ammucchiata una massa di cose sacre
Per farne un uso empio

 

I due ultimi sopravvissuti riescono con le loro «fredde mani ischeletrite» ad accendere un fuoco e possono così guardarsi in viso. Il mondo non era altro che un grumo intriso di morte: i fiumi e gli oceani erano immobili, le navi senza marinai giacevano a marcire nel mare. La onde e le maree si erano arrestate per effetto della morte della luna:

 

La luna, loro amante, era spirata prima;
I venti s’erano indeboliti dell’atmosfera stagnante
E le nubi erano perite; l’Oscurità non aveva bisogno
D’aiuto da loro – Lei era l’Universo.

 

L’Oscurità è addirittura personificata, come una giustiziere giunto sul mondo per porre uguaglianza e lavare l’empio con l’empio. Essa è divenuta l’Universo intero: col suo avvento nulla più è distinguibile, nulla più riconoscibile. Con la morte degli astri è morta anche l’umanità, cadendo in un naturale vortice di estinzione. Si è tornati al primordiale, al mondo prima del mondo, dove regna una strana e inquietante armonia dovuta al semplice fatto che l’uomo, assieme al suo sistema di valori e alle sue convenzioni, è crollato. L’Universo appare come un’unica e sconfinata brodaglia dove nulla parla più di vita, ma rimane la presenza di un’atipica quiete.

Lucia Cambria

Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.