CinemaLetteraturaPrimo PianoDal romanzo d’appendice ai mondi di Netflix, l’eterno successo della narrazione seriale

Luca Tenneriello21 Aprile 2019
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C’è chi il sabato sera resta a casa – fenomeno in crescita rispetto agli anni scorsi – a guardare reality, oppure un film, magari sotto un plaid abbracciati al proprio partner. E c’è chi, col proprio partner o in compagnia di amici, continua a uscire e a prendersi una birra, come si faceva molto più spesso qualche anno fa. E poi c’è chi il sabato sera accende il computer – il plaid e il proprio partner possono esserci o meno – e ingurgita in tutta tranquillità un’intera stagione di una serie tv, tirando – tra tisane e occhi gonfi – fino alle ore più proibitive. Scherzi a parte, il fenomeno delle serie tv è ormai una delle cifre culturali con cui descrivere l’umanità al giorno d’oggi. Netflix, la popolare piattaforma che attualmente consente di vedere oltre 2800 titoli, di cui più di seicento serie televisive, ha raggiunto numeri di diffusione impressionanti: conta, infatti, circa 125 milioni di abbonati in tutto il globo. Tempi moderni, insomma. Ben lontani da quando, per avere il sequel di un episodio era necessario aspettare l’uscita del nuovo numero di un giornale. In effetti, il vecchio romanzo d’appendice, o romanzo a puntate, cos’era se non il bisnonno delle nostre serie tv?

In tanti ne hanno appurato questa non troppo lontana parentela. Il “feuilleton”, ultracentenario, è andato in pensione molto tempo fa, dopo una lunga e fortunata carriera. Siamo agli inizi dell’Ottocento, nel clima della Francia post-rivoluzionaria, quando Louis-François Bertin decide di dedicare il taglio basso del suo Journal des débats alla pubblicazione periodica di segnalazioni culturali e recensioni teatrali. Nel 1831, ritenendola una buona strategia per creare attesa – e alla fine per convincere i lettori a comprare i suoi libri – Balzac decide di stampare periodicamente spezzoni dei romanzi che stava scrivendo, servendosi proprio di questo spazio, presto imitato da molti giornali. È tuttavia solo nel 1836 che nasce ufficialmente il primo romanzo a puntate, con la pubblicazione periodica de La contessa di Salisbury di Dumas padre sul giornale La Presse fondato da Émile de Girardin. La narrativa per episodi riscuote subito grande fortuna in un pubblico variegato: storie semplici e avvincenti, perlopiù ambientate in un recente passato, che lasciano nel lettore quella “suspense” necessaria e sufficiente a comprare il numero successivo. Nascono così I tre moschettieri, sempre di Dumas padre, o I miserabili di Victor Hugo; varcando le Alpi il genere si diffonde anche in Italia con il Sandokan di Emilio Salgari o il tanto amato Pinocchio di Carlo Collodi. Fino ad attraversare la Manica e l’oceano con l’Oliver Twist di Charles Dickens o il Manoscritto trovato in una bottiglia di Edgar Allan Poe. Insomma, una diffusione ampia e fortunata, un’operazione riuscita di marketing culturale. Il romanzo a puntate piace, e la gente compra i giornali. Si tratta di lunghe storie, abilmente spezzettate per creare attesa, che se pubblicate “tutte d’un fiato” forse non avrebbero accattivato il grande pubblico, terrificato dall’incommensurabile mole di pagine da mandar giù.

La narrazione seriale dunque ha sempre riscosso un gran successo. Oggi le serie tv sono il sale del nostro tempo libero, tra piattaforme online e pacchetti televisivi personalizzati. Pillole compatte di arte cinematografica che – come i capolavori della letteratura – risvegliano in noi il bisogno di evadere dalla realtà per viaggiare in mondi virtuali dove tutto è costruito abilmente, senza lasciare al caso le redini della vita. Ci piace vedere eroi contemporanei assorbiti da una trama mozzafiato che smaschera inganni, intrighi e tradimenti. I personaggi che animano queste storie ci piacciono perché – nonostante tutto – li scopriamo vicini a noi stessi, vicini alle nostre pratiche quotidiane; proprio grazie a questa dialettica, i personaggi hanno il potere di attrarci. Scopriamo nelle vicende narrate una familiarità che ognuno di noi declina secondo il proprio vissuto; scopriamo un mondo virtuale in cui siamo noi stessi i protagonisti, immedesimandoci nella vicenda, soffrendo, esultando e morendo con i nostri beniamini. Nella narrazione seriale troviamo un protagonista che ci somiglia, un altro sé, un io ulteriore che ci risulta familiare. Nella virtualità della finzione possiamo esplorare ciò che non siamo, o che non siamo ancora e che vorremmo essere. Nel personaggio che più ci attrae vediamo riflesso il bisogno umano di vederci migliori, di vederci ammantati di una qualche eroica epicità che tuttavia resta intrisa di vita ordinaria e per questo ci sembra accessibile, raggiungibile.

Un film può trasformarci come può farlo la lettura di un romanzo o di un saggio. Pensiamo al momento in cui finiamo di vedere l’ultimo episodio dell’ultima stagione di una serie televisiva (o semplicemente alla fine di un grande film), pensiamo a quella sensazione di perdita, quasi di desolazione, che ci prende e ci lascia senza fiato e con le lacrime agli occhi. Pensiamo anche a come possiamo sentirci ispirati, rinnovati, motivati a perseguire un obiettivo più o meno grande o semplicemente estasiati dalla bellezza della storia narrata, avvinti da quel dolce e profondo stupore che possiamo avvertire anche di fronte alla Notte stellata di Vincent Van Gogh o ascoltando il Requiem K626 di Wolfgang Amadeus Mozart. Insomma, non siamo mai gli stessi dopo la visione di un film o di una serie, così come non lo siamo dopo aver “fruito” di una qualsiasi opera d’arte che l’ingegno umano ha nei secoli elaborato. La trasformabilità della natura umana è, come è facile immaginare, al centro di diverse linee di pensiero. Senza entrare in complicate vicende filosofiche, a noi qui basta vedere come la visione (o la lettura) di un’opera d’arte (e di un’opera d’arte cinematografica) ci consente di viaggiare in quel mondo virtuale sentendoci “a casa”, ritrovando una condizione a tratti familiare che ci invita a immaginarci differenti, restando tuttavia sempre noi stessi in una luce nuova. Un film, una serie tv possono farci vedere noi stessi in una prospettiva riempita di nuovi significati o di nuove aspirazioni. Oppure, molto più semplicemente e senza troppi sofisticati orpelli filosofici, giusto per farci fare quattro risate il sabato sera.

Luca Tenneriello

Sta completando un dottorato di ricerca in filosofia morale alla Sapienza Università di Roma. Approfondisce l’etica britannica dell’età moderna.