Architettura, Design e ModaPrimo PianoCosa resta all’Italia del Made in Italy?

Valeria Fancello16 Dicembre 2019
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Lo scorso mese l’acquisto di Tiffany da parte del gruppo Lvmh (Louis Vuitton Moët Hennessy) per 16,2 miliardi di dollari avrebbe destato l’attenzione dell’altra grande multinazionale francese Kering che, si vocifera, potrebbe acquistare Moncler per competere con il suo antagonista in affari. Moncler rientra tra le poche aziende di proprietà italiana a non essere stata ancora venduta ma potrebbe presto seguire il destino di tante altre, indebolendo sempre più in questo modo uno dei maggiori punti di forza del nostro Paese. La domanda sorge perciò spontanea: perché vendere marchi – che diventano poi i nomi di punta di società estere, aumentandone notevolmente il capitale, dato l’evidente valore che la filiera italiana gli conferisce – anziché tenerli saldamente sul territorio nazionale? Purtroppo non si tratta di operazioni sporadiche.

Nell’ultimo ventennio, infatti, le due sole compagnie francesi sopra citate, quella di Bernard Arnault e di François-Henry Pinault, hanno acquisito rispettivamente Bulgari, Loro Piana, Acqua di Parma e Fendi la prima, e Bottega Veneta, Brioni, Gucci, Sergio Rossi, Dodo e Pomellato la seconda. Nell’ultimo decennio invece la compagnia qatariota Mayhoola for Investment ha acquistato Valentino e Missoni, il gruppo sud-coreano E-Land ha incorporato Mandarina Duck e Coccinelle e il 2018 è stato chiuso con la vendita di Versace all’americano Marc Jacobs. Gli italiani, nel migliore dei casi, detengono le quote di minoranza.

A compensare queste cessioni ci sarebbe però la persistenza nel nostro Paese di buona parte delle varie fasi della filiera produttiva, con cui si intende l’insieme di tutte le attività e imprese che in sinergia tra loro contribuiscono alla creazione del valore del prodotto finito. Il successo della moda italiana, nonostante la sempre più frequente delocalizzazione che insegue la convenienza economica dei bassi costi per il trasferimento in altri paesi, è consolidato dal lavoro dei più importanti distretti industriali per il settore, come Como, Prato e Biella.

Pier Luigi Loro Piana, attualmente vicepresidente dell’azienda fondata nel 1924 dal padre Franco, venduta nel 2013 a Bernard Arnault, dichiara a Il Sole 24 Ore di aver trovato nella società francese le condizioni ideali per il mantenimento dell’identità del marchio e quelle necessarie per la crescita dello stesso. La cessione di Loro Piana a suo tempo aveva sollevato le critiche di chi vedeva un altro pezzo di eccellenza italiana andar via, ma da allora il brand di lusso piemontese ha continuato a registrare successi e una forte crescita, conservando la garanzia di una produzione qualitativamente elevata al cento per cento Made in Italy. Secondo alcuni, quindi, non esisterebbe un problema reale nella cessione se per chi acquisisce il marchio l’italianità è il valore aggiunto a cui non poter rinunciare.

Secondo quanto afferma Claudio Marenzi, presidente di Confindustria Moda, la mancanza in Italia di grossi aggregatori del lusso sarebbe da imputare a un maggior legame degli italiani con il prodotto. Siamo forse ineguagliabili nelle fasi di ideazione e produzione ma carenti su aspetti altrettanto importanti, come quelli manageriali? Perché rinunciare a qualcosa che potrebbe far crescere economicamente il Paese?

Società forti, con acquisizioni importanti, potrebbero diventare aggregatori capaci di creare lavoro e nuove figure professionali che impiegano i migliori laureati, anziché favorirne la migrazione all’estero. Secondo Luca Solca – a capo di Exane Bnp Paribas, intervistato per Business of Fashion sull’argomento – in Italia ci sarebbero state società con reali possibilità di divenire aggregatori, ma che avevano ormai sviluppato con i gruppi francesi un divario troppo grande da colmare. Quando Prada acquistò Church’s, Jil Sander ed Helmut Lang, secondo Solca il brand non era forte abbastanza poiché per creare una società con un importante potenziale di crescita c’è bisogno di un brand solido e proficuo alla base, come Gucci per Kering, Vuitton per Lvmh e Cartier per Richemont.

Le speranze, quindi, di avere un grosso polo come quello di Arnault, negli ultimi anni stanno svanendo lentamente, in particolare a causa di scelte strategiche errate. Siamo disposti d’ora in avanti a essere semplicemente “quelli che producono” eccellenze e meno bravi invece ad accrescere un business che genera lavoro e quindi ricchezza?

Valeria Fancello

Sin da piccola, nella sua bellissima isola, sogna la moda. Inizialmente affascinata dal suo aspetto patinato, scopre di essere più attratta dal racconto della cultura che si cela dietro questo mondo. Frequenta a Roma la facoltà di Scienze della moda e del costume per poi proseguire con un percorso specialistico sul giornalismo.