LetteraturaPrimo PianoLe due facce di Giuseppe Gioacchino Belli, tra ribellione e spirito di adesione

Monica Di Martino25 Gennaio 2022
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Giuseppe Gioacchino Belli nasce a Roma nel 1791 e conduce un’esistenza difficile e stentata, salvo la parentesi matrimoniale con una ricca vedova che lo finanzia e gli consente una vita agiata. Caratterizzato da una personalità alquanto ambigua, quasi sdoppiata: da un lato il conservatorismo che lo sospinge verso una produzione poetica in lingua e un orientamento politico di adesione verso il potere rappresentato, a Roma, dal Papa e dalla Chiesa; dall’altro la vasta produzione dialettale di sonetti plebei – beffardi e irriverenti, spesso osceni – che rivelano una natura fortemente anarchica e dissacratoria.

La conferma di un indefinibile temperamento del Belli giunge, del resto, dalle posizioni intraprese lungo il corso della sua vita: nel 1848 la rivoluzione lo spinse verso posizioni ostili a Mazzini e Garibaldi così come, rivestita la carica di censore, esercitò la professione con rigidezza (proibì, infatti, il Rigoletto e il Macbeth di Giuseppe Verdi, il Mosè di Gioacchino Rossini e altre opere di William Shakespeare).

Come si spiega questa apparente contraddizione è lo stesso Belli a chiarirlo: «Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e io lo ricopio, non per proporre un modello, ma sì per dare un’immagine fedele di cosa già esistente, e, più, abbandonata senza miglioramento».

Suo obiettivo, dunque, è quello di ricostruire fedelmente un modo di vedere non suo; tuttavia, la circostanza si presta bene per l’elaborazione di un’altra ipotesi, quella per cui tale scelta sia l’occasione per far emergere l’altra faccia della sua personalità, forse in altri momenti soffocata. Allo stesso tempo, quel “monumento” alla plebe – che illustra la corruzione politica e la rigida divisione delle classi sociali – riflette un valore negativo, una visione di desolato sconforto di verghiana e leopardiana memoria.

Monica Di Martino

Laureata in Lettere e laureanda in Filosofia, insegna Italiano negli Istituti di Istruzione Secondaria. Interessata a tutto ciò che "illumina" la mente, ama dedicarsi a questa "curiosa attività" che è la scrittura. Approda al giornalismo dopo un periodo speso nell'editoria.