LetteraturaPrimo PianoTeatro e DanzaComplessità e modernità del teatro di Plauto

Adele Porzia23 Giugno 2022
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Portare in scena, adesso, una commedia antica come I Menecmi di Plauto non è per niente semplice. Bisogna, infatti, fare i conti con l’epoca della Repubblica romana, un’età in cui la letteratura latina emetteva i suoi primi vagiti e guardava ai ben più sofisticati e cresciuti greci, con quell’attenzione tipica dell’allievo che sa di aver tanto da imparare dal suo maestro. Una letteratura in divenire, come il suo linguaggio, ancora allo stato embrionale e ben distante dall’ardito verso di Ovidio o dal complicato ed elegante periodare di Cicerone. Una lingua piena di grecismi e barbarismi, alcuni destinati a perdersi, altri a sopravvivere. E quanti di questi termini arcaici sono sopravvissuti in alcuni autori “nostalgici” come Sallustio e Virgilio, per poi giungere a noi, eredi prediletti del latino (e un po’ anche del greco).

Fare i conti ora con tutt’altra società non è facile e ben difficile è mettersi nei panni di chi è vissuto nel 200 a.C. Eppure, come ci spieghiamo la vitalità di questa commedia ancora oggi? E perché continuiamo a imparare da opere provenienti da un passato remotissimo? Per domande tanto difficili, la risposta è semplice: per quanto diversi siano i costumi, l’uomo è sempre quello. È sempre infedele, tirannico, fragile, divertente, forbito, volgare, padrone e… servo. Nulla cambia sotto il sole, a parte alcune sovrastrutture in perenne cambiamento, erroneamente scambiate per progresso.

In particolar modo, questa commedia ha due temi che sono stati più di tutti oggetto delle trame future: il tema del doppio e la conseguente “commedia degli errori”. Il doppio perché Menecmo, il protagonista, viene confuso con questo secondo Menecmo, cui non dispiace sempre lo scambio, perché straniero e povero, contrariamente al primo. E questa sovrapposizione genera ironici equivoci, che ancora oggi fanno ridere uno spettatore. Plauto, così facendo, ha gettato le basi per le commedie di William Shakespeare, Carlo Goldoni, Molière, ammaestrando i grandi drammaturgi che hanno rivoluzionato il teatro. Insomma, ha ideato la commedia. Anche se certamente non da solo, visto che molto deve ai suoi modelli greci. Menandro, in primis.

Eppure, per quanto cerchiamo di adattarlo ai tempi correnti, vi sono differenze notevoli. Per esempio, la commedia plautina prevedeva un prologo e un “argumentum” (un riassunto dell’opera), impersonati da due autori diversi. Talvolta, potevano essere unite, ma si tratta di due fasi ben distinte, perché se il prologo introduce la vicenda, l’”argumentum” la svela: agli spettatori dell’epoca non tanto interessava l’effetto sorpresa, quanto divertirsi per le situazioni assurde, per gli equivoci creati, nonché per la reazione dei personaggi dinanzi a queste insidie. Non importava che conoscessero il finale, perché tanto si trattava di una commedia e in una commedia tutto finisce bene per definizione. Si era ben lontani dai dettami del teatro novecentesco.

I personaggi, inoltre, erano soliti presentarsi poco dopo il prologo, con le loro consuete maschere e ruoli sempre fissi: il vecchio, l’innamorato, la prostituta, il parassita, la madre, il lenone, la lena, per citarne i maggiori. E durante il loro consueto ingresso, questi scambiavano insulti di ogni tipo con il pubblico, ma anche carezze (a volte piuttosto ardite), in vista di un coinvolgimento attivo degli spettatori, appartenenti a classi diverse. Inoltre, I Menecmi prevedeva una grande varietà di linguaggio: dalle turpitudini più efferate e basse al lessico giuridico, nonché poetico, spesso abbassato dalle situazioni poco alte della commedia. E questa varietà linguistica voleva sempre soddisfare un pubblico eterogeneo, che andava a teatro per divertirsi.

Non aspettiamoci, però, un teatro grossolano. Prendiamo, per esempio, il Miles Gloriosus. Qualcuno – peccando forse di esagerazione, forse di acuto realismo – è giunto perfino ad affermare che sia l’opera più bella del drammaturgo latino, cosa che naturalmente non si può confermare con assoluta certezza (si farebbe un gran torto alle altre). Eppure, di certo converrebbero tutti nell’affermare che sia una delle più complesse. Nel Miles Gloriosus il tema del doppio, tanto caro a Plauto, viene trattato in maniera assai più sottile. A differenza della commedia I Menecmi (in cui la presenza di due persone identiche genera errori ed equivoci, generando il riso), qui il tema del doppio pare solo accennato, perché a un tratto – per garantire il lieto fine – si cerca di convincere un servo poco vigile di non aver visto la prostituta Filocomasio baciare il suo amante, ma la sua sorella gemella giunta da poco in città. Espediente, questo, che lascia il tempo che trova nel corso della trama, costringendo l’astuto servo-regista a studiare piani decisamente più intricati.

Plauto vuol quasi redarguire il pubblico con questa commedia più matura e prendersi un po’ in giro, mettendo in dubbio i risvolti comici di una comune commedia degli equivoci, come se ne vedevano tante. Piuttosto, allora, indaga sulla parola e sulla capacità della parola di raccontare menzogne. La commedia stessa, così, diviene un intricato inganno ai danni del suo vanaglorioso protagonista e dello stesso pubblico. Ne risulta, dunque, la centralità della parola, la sua ambivalenza, la capacità del linguaggio di nascondere la verità, di rendere falso il vero e verosimile anche la bugia più efferata. La parola in quanto potentissimo strumento di inganno, in grado di piegare la realtà e l’interlocutore. Nonché, una riflessione sul teatro, in cui lo spettatore guarda e considera vero ciò che è falso, affidandosi a chi parla.

Adele Porzia

Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.