LetteraturaPrimo PianoCome Giovanni Boccaccio partì dalla peste per modellare la sua commedia umana

Adele Porzia14 Aprile 2022
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All’inizio della sua opera monumentale, il meraviglioso Decameron, Giovanni Boccaccio parla di quel tragico evento che fu la peste del 1348. Non si limita certo a far soffrire i lettori, ma la usa sapientemente quale punto di partenza della sua storia. E così quella tremenda pestilenza, che piegò Firenze, divenne teatro di cento storie, narrate dai dieci protagonisti dell’opera. Una cornice certamente insolita, che Boccaccio sapeva bene avrebbe riportato alla memoria dei fiorentini una serie di ricordi infelicissimi.

Boccaccio fa sua la lezione che dà Platone nella Repubblica: non si può costituire uno Stato giusto, senza individui retti. E, allora, i contemporanei dovranno rivivere l’atroce pestilenza e riflettere, migliorare, crescere. E il poeta non aveva scordato naturalmente la grande lezione che Dante Alighieri gli aveva impartito, nella sua opera più bella, e cioè che per godere dei momenti felici, bisognasse attraversare una certa selva oscura. Per questo, invita chi legge a non soffermarsi su quella tragedia ma a pazientare fino a novelle più felici, che avrebbero parlato della commedia umana che è la vita. E, tra una risata e l’altra, avrebbero fatto riflettere sui comportamenti meno lusinghieri dell’uomo e sulla necessità di cambiare, di invertire la rotta, al fine di avere una società più giusta.

Però, prima delle novelle, tocca narrare la peste e Boccaccio (come già avevano fatto Tucidide, Tacito e Lucrezio prima di lui) parla della «mortifera pestilenza», descrivendone nei minimi dettagli i sintomi. Ma, prima ancora, ci spiega come il morbo sia nato in Asia e che proprio nelle terre d’Oriente la fuoriuscita di sangue dal naso veniva considerata quale «manifesto segno di inevitabile morte»; a Firenze, a far prevedere una triste morte era la formazione di strani gonfiori, che crescevano in zone particolarmente delicate del corpo, come l’inguine e le ascelle, e che si diffondevano su tutto il corpo, spesso tramutandosi in chiazze nere e livide. La nascita di quelli che erano chiamati “gavaccioli” sanciva l’inizio della peste e l’inevitabile morte dell’individuo. E risultava tanto contagiosa da diffondersi anche tramite il semplice tocco dei panni dei malati e dei corpi, come il fuoco che si diffonde grazie alla sterpaglia. E a nulla serviva ripulire la città o vietare l’ingresso ai malati, pregare o fare lunghe processioni, sottolineando come si ricorresse a Dio proprio in quelle circostanze, con uno scopo fortemente utilitaristico.

Eppure, di questa introduzione fatta da Boccaccio, nulla risulta interessante come la parte inerente alle reazioni dei fiorentini. Mentre vi è un gruppo particolarmente prudente, che ha pensato bene di chiudersi in casa, limitando il contatto con l’esterno, ci sono d’altro canto cittadini che – un po’ per negligenza e un po’ per fatalismo (sia perché sottovalutano la malattia, sia perché intendono godersi quegli ultimi giorni) – preferiscono starsene in giro, bevendo e divertendosi; poi, vi sono persone che stanno nel mezzo e che continuano a vivere respirando erbe odorifere, nell’illusione di sopravvivere con rimedi naturali. E, infine, troviamo coloro che per il timore del contagio sono scappati da Firenze, rifugiandosi nelle città limitrofe. Naturalmente, a potersi permettere di restare chiusi in casa erano i più abbienti, che non necessitavano di lavorare. Gli altri erano, quindi, condannati a morte certa.

Quello che davvero interessava a Boccaccio non era semplicemente raccontare quello che era sotto gli occhi di tutti, ma quello che aveva notato con i suoi, che lo rendevano certamente un testimone oculare di prim’ordine, ma che gli permettevano di scorgere quello che non potevano vedere tutti, perché il dono di leggere gli eventi e di interpretare la storia spetta per diritto e vocazione agli intellettuali e ai poeti. E, allora, questo grande scrittore esprime un dissapore senza tempo nei confronti della genia umana, che nei momenti di crisi dimentica se stessa. Corpi abbandonati, anziani lasciati morire nelle case, all’insegna di un’umanità che si disumanizza, per cercare di sopravvivere.

Chissà se vi fosse dietro quella pestilenza la mano di Dio, si chiede Boccaccio, al fine di purgare la città, di ripulirla da tutto il marcio che vi si annidava. Il poeta non risponde a questo interrogativo, probabilmente ritenendolo erroneo: la vita ricomincia, perfino dopo un evento così infausto. E così, è giunto il momento di bearsi dei racconti, della bellezza dell’umano, delle sue contraddizioni, della sua voglia di vivere a pieno l’esistenza. Non serve a nulla piangere e soffrire, pare dirci Boccaccio, se non impariamo dai nostri errori e se, perfino nei momenti più bui, non cerchiamo di comprendere il reale scopo dell’essere vivi. Aiutarsi, per esempio; esserci per gli altri.

I dieci ragazzi che daranno vita al Decameron hanno in sé quella forza, tutta giovanile, che Boccaccio auspica. La prova che il solo modo per sfuggire al dolore, sia la poesia, l’arte, la letteratura, quale porto sicuro dalle intemperie della notte. Raccontarsi o raccontare gli altri, ridere di sé, dimenticandosi il marcio e celebrando il meglio dell’umano e la sua straordinaria commedia umana. Una speranza di salvezza e redenzione, tanto dell’individuo, quanto della società.

Adele Porzia

Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.