LetteraturaPrimo PianoCome Dante Alighieri «disonorò l’opera sua» inserendovi un gesto osceno

Adele Porzia7 Gennaio 2021
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Quanto è bello iniziare a studiare la Divina Commedia. Si è al terzo anno di scuola superiore, nel pieno dell’adolescenza, magari innamoratissimi, persi nel pensiero di quel ragazzo o ragazza che proprio non vuol cessare di incantarci e, in un bel pomeriggio d’autunno, ci vediamo (almeno inizialmente) obbligati a leggere l’incomprensibile opera di quel burbero di Dante Alighieri. Un nome spaventoso. Parliamo, in fondo, del padre della letteratura italiana, della lingua italiana, della letteratura europea, forse mondiale, ed è pur normale lasciarsi prendere dallo sconforto. Ma questi sono sentimenti passeggeri, perché non c’è studente – per quanto pigro, svogliato e disinteressato – che non venga rapito dai versi di quel folle e tristissimo fiorentino. Perché quando Dante iniziò a scrivere la Divina Commedia era triste davvero e mortalmente arrabbiato con i fiorentini.

Eppure, mentre era in esilio, non avendo a disposizione altro mezzo per farla pagare a tutti, condannò i suoi nemici alla “damnatio memoriae”, assai meglio di chiunque altro. E, così facendo, ha reso immortali tutti quanti, specie il Papa Bonifacio VIII. Non tutti sono in grado di segregare i propri nemici all’Inferno, e con quale stile; eppure, vi è un punto della prima cantica dantesca che ha fatto particolarmente impressione a Nicolò Machiavelli, al punto che questi, irato col maestro fiorentino, giunse a dire che avesse «disonorato l’opera sua». E questo perché il nostro poeta prediletto, desideroso di rappresentare con estremo realismo la genia umana, avrebbe «fuggito l’osceno», facendo fare a un personaggio piuttosto scurrile un gestaccio che Machiavelli proprio non ha perdonato al poeta.

Nel ventiquattresimo canto, dopo aver attraversato l’Inferno in tutto il suo indicibile orrore, esserci impietositi e irritati, interrogati su alcuni versi misteriosissimi e averne imparato qualcuno per poterlo sfoderare al momento giusto, si cammina insieme a Dante e Virgilio tra le Malebolge, i cerchi più remoti del regno infernale. E qui giungiamo nella bolgia dei ladri, che vengono morsi al collo da un serpente, cadono a terra come cenere e rinascono da essa, esattamente come la fenice. Un’immagine straordinaria, tra le più belle e spaventose di questo immenso poema: «Ed ecco a un ch’era da nostra proda, / s’avventò un serpente che ‘l trafisse / là dove ‘l collo a le spalle s’annoda. / Né O sì tosto mai né I si scrisse, / com’ el s’accese e arse, e cener tutto / convenne che cascando divenisse; / e poi che fu a terra sì distrutto, / la polver si raccolse per sé stessa / e ‘n quel medesmo ritornò di butto. / Così per li gran savi si confessa / che la fenice more e poi rinasce, / quando al cinquecentesimo anno appressa».

Qui Dante trova un abitante di Pistoia, città detestata dal poeta, e il buon Virgilio chiede al figuro chi sia: si parla di Vanni Fucci, un nome che a noi non dice niente, ma che ai tempi di Dante era ben noto per diversi furti e un omicidio. Precisamente, era considerato il famigerato autore di un furto sacrilego che era avvenuto nel 1293 nella cappella di San Iacopo, all’interno del duomo di Pistoia. Qui, sarebbero state rubate le sante reliquie custodite e un tesoro, straordinariamente ricco. Inizialmente, fu arrestato e quasi impiccato un innocente, un tale Rampino Foresi, per poi essere acciuffato uno dei complici, il notaio Vanni della Monna. E questi, ormai prossimo all’impiccagione, rivelò di essere stato aiutato da Vanni Fucci, che era assai celebre per le sue malefatte. Il problema era che ormai il presunto ladruncolo aveva già lasciato la città, senza che si potesse verificare in alcun modo un suo effettivo coinvolgimento. Ma Dante, a prescindere, lo colloca tra i ladri e risolve il giallo con l’inappuntabilità di un Poirot medievale.

Fucci, irato con Dante perché fiorentino, gli racconterà tutte le future disfatte di Firenze e lo farà al fine di far soffrire il poeta: «E detto l’ho perché doler ti debbia», sostiene infelicemente. Così si conclude il canto, lasciando i lettori attoniti, ma non appena ha inizio il successivo, Vanni Fucci – in linea con il sacrilegio compiuto in vita – fa un gesto terribile verso Dio: «Alla fine delle sue parole il ladro / le mani alzò con ambedue le fiche, / gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!”». E subitamente, come un novello Laocoonte, Fucci viene attaccato dai serpenti e stretto in una morsa. Ha bestemmiato contro l’«Etterno» e deve pagarla. Ma precisamente che gestaccio ha fatto quella canaglia di un Vanni?

Si tratta di un gesto volgare molto conosciuto all’epoca, che voleva mimare l’atto sessuale. Un equivalente del nostro dito medio o del gesto dell’ombrello, per intendersi. E si faceva stringendo la mano a pugno e mettendo il pollice tra medio e indice. All’epoca, chi osava fare un simil gesto verso una figura sacra o, addirittura, aveva l’audacia di mostrare le natiche, andava incontro a modiche multe o a qualche scappellotto. Di certo non veniva soffocato dai serpenti, ma nell’Inferno dantesco questi atti irrispettosi venivano puniti molto più severamente. Specie perché, all’epoca di Dante, i Pistoiesi si erano preoccupati di erigere, sulla torre del castello di Carmignano, due braccia di marmo con le mani che facevano le fiche a Firenze. E non esiste che Dante perdoni chi si burla della sua città. Quindi, potremmo dire che il Sommo Poeta si sia tolto più di un dente con Vanni Fucci e che Machiavelli avrebbe dovuto piuttosto ringraziarlo per aver debitamente ripagato Firenze del torto subito.

Adele Porzia

Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.