LetteraturaPrimo PianoCome Beatrice Portinari “signoreggiò” l’anima di Dante Alighieri

Adele Porzia24 Marzo 2022
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Quando ci si reca a Firenze, bisogna andare a casa di Dante: è una tappa obbligata, che consente di vivere una visita metaforica al Dante ragazzo, al fanciullo studioso e innamorato, così dissimile dal poeta in esilio, costretto a peregrinare di città in città, senza “Gran Lombardi” che possano accoglierlo. Quanto ha sofferto Dante a causa della politica del tempo e a quanto ha dovuto rinunciare per la sua amatissima Firenze; eppure, noi, fortunati posteri, non dobbiamo essere manchevoli e, allora, ci rechiamo senza indugio nell’ultimo dei sestieri o circoscrizioni in cui è divisa Firenze, precisamente il Sesto di Porta San Piero o San Piero Maggiore. All’ingresso del mercato vecchio, prospicente la piazza che confina con la vecchia parrocchia di San Martino, è ubicato il museo di Dante e poco vi è rimasto di quella grande casa di famiglia.

Dante o, meglio, Durante Alighieri o Alaghieri, proveniva da una famiglia benestante, con una florida tradizione di usurai e affaristi. Tipi intelligenti, che avevano fiuto nelle faccende di denaro, tanto da essere tra i pochi a conservare una bella somma, darla in eredità e, soprattutto, avere un cognome. Non è una cosa da poco, perché soltanto i nobili – i cosiddetti “magnati” – avevano un cognome e il nostro poeta non lo era. Nobile di spirito, senz’altro, e molto più di chi poteva vantare il titolo sulla carta. Eppure, nonostante tutto, viveva in una zona illustre, dove si trovava il fior fiore dell’aristocrazia fiorentina. E, tra questi, vi era Folco di Ricovero Portinari, personaggio di spicco con una forte appartenenza ghibellina e padre della celeberrima Beatrice.

Quando Dante aveva nove anni, gli capitò di vedere per la prima volta colei che gli avrebbe fatto scrivere i versi più belli della letteratura mondiale. Bice (come erano soliti chiamarla, perché a Firenze si usavano moltissimi diminutivi) aveva appena otto anni ed era uscita con il padre per la festa di Calendimaggio, importantissima nel Medio Evo perché era una sorta di Festa dei Lavoratori, ove di brindava, si ballava e si gustavano dei saporiti banchetti. All’epoca, uomini e donne si muovevano separatamente, ma Bice era solo una bambina e si teneva ben stretta al suo papà.

Dante scrive nella Vita Nova che «d’allora innanzi dico che Amore signoreggiò la mia anima» e si innamora a tal punto da soffocare la ragione. Al di fuori del simbolismo ricorrente, dopo nove anni, Dante incontra nuovamente Beatrice, stavolta con altre due donne. Beatrice era arrivata all’età in cui poteva uscire da sola, naturalmente in compagnia femminile, e lì, tra le strade di Firenze, dopo che non l’aveva più vista per tutto quel tempo, la bellissima diciassettenne lo saluta e Dante resta ammutolito, dopo aver finalmente sentito la sua voce per la prima volta.

A quel punto, il nostro poeta torna a casa, si chiude in camera, come farebbe un qualunque adolescente, e si addormenta. Bisogna specificare che Dante era un giovanotto rampante, divenuto maggiorenne e con tutta la vita davanti, nonché l’intero patrimonio paterno a disposizione. Beatrice, al contrario, donna di buona famiglia, era stata data in moglie a un magnate, il cavaliere Simone de’ Bardi. Dante si trovava, dunque, ad amare una donna sposata e questo non lo rendeva particolarmente quieto. Era tanto agitato da quell’incontro, sorpreso che la sua amata l’avesse riconosciuto e salutato, che si perse nel pensiero di lei e la sognò. Ma mica vestita di rosso, come quando l’aveva vista da bambina: Beatrice era nuda, totalmente nuda. Noi, lettori moderni, rideremmo di questa confessione. Ma Dante, convinto di essere inappropriato, comprese di dover incanalare tutta questa energia in attività più consone al buon costume.

E, fortunatamente, stava prendendo piede una deliziosa abitudine. Molti raffinati poeti avevano iniziato a scrivere d’amore, ma non in latino, come si era soliti fare. Piuttosto, in volgare, nella lingua del tempo. E Dante, perciò, scrisse un sonetto, ispirato dal suo amore per Beatrice: «A ciascun’alma presa e gentil core / nel cui cospetto ven lo dir presente, / in ciò che mi rescrivan suo parvente, / salute in lor segnor, cioè Amore. / Già eran quasi che atterzate l’ore / del tempo che onne stella n’è lucente, / quando m’apparve Amor subitamente, / cui essenza membrar mi dà orrore. / Allegro mi sembrava Amor tenendo / meo core in mano, e ne le braccia avea / madonna involta in un drappo dormendo. / Poi la svegliava, e d’esto core ardendo / lei paventosa umilmente pascea: / appresso gir lo ne vedea piangendo».

A questo sonetto, si poteva rispondere in versi, ma un certo Dante Maiano, probabilmente nervoso per i fatti propri, non si lasciò andare a lusinghe e lo invitò a spegnere i bollori («che lavi la tua coglia largamente / a ciò che stinga e passi lo vapore», consigliandogli insomma di sciacquarsi i testicoli in acqua fredda). In molti, però, apprezzarono Dante, in primis Guido Cavalcanti e con lui i tanti celebri scrittori di quel Dolce Stil Novo che serpeggiava lietamente tra le strade comunali. Il Sommo Poeta comprese per la prima volta il grande valore della poesia e la grande forza dei versi, in grado di liberare un cuore da tanta sofferenza e di rendere paradisiaco un amore che può arrecare tanto dolore. Quando morì Beatrice, all’età di venticinque anni, il padre della nostra letteratura si ripromise di «dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna». E così l’ha resa immortale.

Adele Porzia

Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.