CinemaPrimo PianoClaudio Caligari: un regista ai margini

Nadia Pannone26 Aprile 2019
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Si è spento da poco Enzo Di Benedetto, unico superstite insieme a Michela Mioni dei protagonisti del film cult di Claudio Caligari Amore tossico (1983). Era sua l’iconica battuta: «Dovemo svorta’ e te te piji er gelato?», innumerevoli volte citata e imitata da quasi due generazioni di giovani. Amore tossico fu un vero successo all’epoca: ottenne diversi riconoscimenti, tra cui il premio speciale nella Sezione De Sica alla 40° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e il premio per la Miglior interpretazione femminile all’attrice protagonista Michela Mioni al Festival di San Sebastian. Tutto lasciava presagire un brillante futuro cinematografico per Caligari, ma il suo talento puro non è riuscito a trovare il posto che avrebbe meritato nella storia del cinema italiano. «Muoio come uno stronzo, e ho fatto solo due film», avrebbe confidato all’amico Valerio Mastandrea, protagonista del suo secondo lungometraggio (L’odore della notte, 1998), prima di riuscire a portare a compimento un terzo film, nel 2015. Lo stesso anno della sua morte, il suo testamento: Non essere cattivo.

L’interesse primo di Caligari è stato quello di delineare con una spietata onestà la complessità e il disagio di una generazione di giovani che si portava dietro gli strascichi di un’epoca di grandi cambiamenti e che era sopraffatta da un irrefrenabile bisogno di opporsi, di emarginarsi da una società considerata ipocrita e consumistica, senza però avere più la motivazione ideologica dei propri predecessori. Con uno sguardo decisamente più disincantato, alle rivolte si sostituivano le rapine. Alle occupazioni, le siringhe. Amore tossico porta avanti uno studio sulla droga iniziato già negli anni Settanta, attraverso una serie di documentari. Caligari filma le piatte giornate di Cesare, Michela, Enzo, Ciopper e Loredana, che si muovono in un’assolata e malinconica Ostia alla ricerca di un po’ di denaro per farsi uno “schizzo”. Il regista piemontese non sceglie attori professionisti, ma ragazzi con vere esperienze di tossicodipendenza, la cui autenticità è percepibile anche nel “rustico” linguaggio utilizzato. Abbandonata ogni liricità, i protagonisti del cinema di Caligari si rinchiudono in vuote e velenose prigioni. La droga, inizialmente simbolo del rigetto del compromesso, diventa mero e inutile annichilimento.

Dopo una pausa – non voluta – di 15 anni, Caligari riprende il filo del discorso attraverso la sua seconda opera, L’odore della notte. Remo Guerra (Valerio Mastandrea) si muove nella violenta notte romana, che odora di sangue, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, alla ricerca di una personale vendetta nei confronti del mondo alto-borghese. Di giorno poliziotto, di notte efferato rapinatore che fa del denaro non un fine, bensì un mezzo per demolire le vite – che considera vuote e ipocrite – di chi pensa di poter comprare ogni cosa con i soldi. Film passato totalmente in sordina, pervaso da un sentimento devastatore nei confronti di un’Italia che del boom economico aveva divorato tutto, lasciando alle nuove generazioni soltanto le briciole.

Non essere cattivo, ideale continuazione di Amore tossico, si apre con un’auto-citazione: ancora il pontile di Ostia, ancora la scenetta del gelato, ancora un Cesare, ancora due ragazzi di strada (questa volta, però, interpretati da attori professionisti quali sono gli ottimi Luca Marinelli e Alessandro Borghi), che trascorrono le giornate tra furtarelli, spaccio e sballo notturno. Le alternative della borgata, anche negli anni Novanta, non sono molte: o ci si adatta a una vita mediocre, fatta di lavoretti, o ci si rifugia nella criminalità. «A Ce’, non guarda’ il mare che poi te vengono i pensieri»; e infatti non ci si pensa nemmeno ad abbandonare la periferia, che diventa una vera e propria prigione a cielo aperto. Difficile scrollarsi di dosso l’eredità dei ragazzi di Amore tossico, fatta di miseria, pasticche e AIDS, e se Vittorio decide di accontentarsi di un’esistenza banale, lo spirito irrequieto di Cesare lo condurrà dritto verso l’autodistruzione. Il finale è aperto: il piccolo Cesare, appena venuto al mondo, rappresenterà un barlume di speranza, oppure avrà lo stesso miserabile destino dei suoi predecessori?

Caligari ha passato la vita ai margini del cinema italiano. Tre film sono il risultato di innumerevoli sceneggiature e progetti ideati e mai realizzati a causa di incomprensioni e ostacoli che questo ambiente, invariabilmente progressista e dominato dal pensiero politicamente corretto, frappone sul cammino delle (poche) voci non del tutto allineate. Se abbiamo potuto godere di questo suo ultimo lungometraggio, osannato – forse anche un po’ ipocritamente – dalla critica, è stato solo grazie alla tenacia di quelle poche persone che Caligari lo hanno stimato, riconoscendogli la giusta importanza.

Nadia Pannone

Basta poco a renderla felice: un buon film, un po' di musica anni Ottanta, una libreria, qualche conversazione stimolante, un lago, delle luci al neon, una piazza deserta e assolata, delle foto vintage, una coperta e un buon caffè.