LetteraturaPrimo PianoCesare Pavese e quel suo sogno di America

Adele Porzia1 Luglio 2021
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Parlare di Cesare Pavese significa raccontare l’America. Non l’America reale, della metà del Novecento, ma un’America presunta, trasognata, elaborata attraverso la letteratura. Perché questo grande scrittore, letterato, traduttore, quella sua cara America non l’aveva mai vista, se non tra le pagine dei libri. Le ragioni di quest’amore possono essere innumerevoli, ma tra tutte una può essere considerata determinante: Pavese sente il bisogno di un processo inverso a quello che si era verificato nel 1492, una sorta di scoperta al contrario, un’invasione culturale che risvegli l’Italia. Certamente si tratta di un amore anticonvenzionale, ma che anticipa una sorta di moda letteraria che si svilupperà nel nostro Paese, un’influenza a tutto tondo che porterà molti scrittori a seguire a ruota Pavese che, tra tutti gli intellettuali italiani, è stato il primo a percorrere questa strada, prevedendo il grande fascino e l’impatto che avrebbe avuto l’America sulla cultura italiana.

Quello che ricerca non è un modello reale, esistente, ma un modello letterario, ricavato dai testi e dagli autori che lui tanto ama, sin da quando era solo un liceale. L’America che idolatra e insegue è «pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente». Un miraggio, un sogno intonso che vorrebbe poter vivere. E ai giovani americani invidia quell’eterno vagabondare e perdersi nelle strade, la fame di libertà di «un’allegra razza di giovani paria cenciosi che girano senza motivo da stato a stato, da regione a regione, in preda alla febbre della strada», come scriverà in La letteratura americana e altri saggi.

Pavese è affascinato da questa tipologia di giovane vagabondo, che infiamma la letteratura americana, suo indiscusso protagonista: vive una vita dissoluta, beve, fuma, lavora dove gli capita per guadagnare il minimo che gli occorre per vivere e stare al mondo. Non sa bene dove stia andando e non ricorda dove sia stato; di quello che ha visto gli restano solo una manciata di emozioni contrapposte e uno spietato bisogno di vita, di evasione dalla routine quotidiana. Gira sui treni merci o con l’autostop, altrimenti a piedi inforca i sentieri nebulosi delle strade, facendo del cammino il suo stesso esistere. È proprio questo ad affascinare Pavese, questo vagabondare dell’uomo. La trama che si fonde con la narrazione, dando vita a qualcosa di nuovo, anche e soprattutto nello stile dell’opera.

Traduce Sinclair Lewis, Sherwood Anderson e Moby Dick, l’indiscusso capolavoro di Herman Melville, di cui realizza una traduzione così bella, da essere considerata addirittura meglio dell’originale. Ne coglie tutta la novità stilistica, concettuale, narrativa e auspica un presente ove gli intellettuali italiani prendano spunto dagli scrittori americani. Perfino di un romanzo non bellissimo di Lewis, Il dottor Arrowsmith, Pavese non potrà che parlare bene: «Mal fatto, tirato giù, privo di costruzione» ma «di quelli che si leggono d’un fiato, cui si torna a pensare avidamente per l’abbondanza pletorica di vita che li informa». Ed è proprio la vitalità della letteratura quella a cui aspira Pavese e quella di cui crede necessiti l’Italia. In queste storie, questo grande scrittore vede il «bisogno storico» della sua penisola.

Così scrive in La letteratura americana e altri saggi: «Questi americani hanno inventato un nuovo modo di bere. Parlo, s’intende, di un modo letterario. Un personaggio, a un certo punto di un romanzo, pianta tutto: belle maniere, lavoro – famiglia, quando l’abbia – e solo, o in compagnia di un amico del cuore, scompare qualche tempo per la solita spedizione: he has gone on the grand sneak, si è buttato alla gran fuga. Talvolta l’assenza dura giornate. La condotta del ribelle, nel frattempo, è molto semplice: da un baccano di canzoni e di bei motti, a un muso angosciato e meditante. Alla fine, il personaggio torna a posto nella vita. È un po’ abbacchiato e smorto, ma ha una nuova coscienza di se stesso: la macchina della civiltà non lo possiede interamente, la vita è ancora degna».

Pavese si chiude in questo mondo fittizio, in questo sogno che è l’America, per fuggire dalla realtà di ogni giorno, dal pallido colore della sua terra, che ha ormai perso quel primitivismo, quella spontaneità così forte nella letteratura americana, che la civiltà ha contribuito a disperdere per sempre. Quello di cui Pavese si rende conto è che queste avventure di cui legge, gli scrittori le hanno davvero vissute. Si dovrebbe forse abbandonare il confortevole nido e gettarsi nel mare delle avventure? Forse è questo il solo modo per sfuggire al «male della civiltà»? Herman Melville, riflette Pavese, ha vissuto avventure reali e così non solo ha scritto della grande letteratura, ma ha trovato l’equilibrio nella vita reale.

Pavese è affascinato da questi cercatori di libertà, che hanno ancora modo di forgiare il loro Paese, la loro America. Fanno un’antiletteratura e raccontano viaggi, sport, cinema, tutto col sottofondo del jazz. Un mondo originale, quasi primitivo, cui si dovrebbe tornare per poter essere liberi, felici, curando l’anima decadente che ogni italiano (ed europeo) serba in sé. Una fuga per riappropriarsi della vita persa, senza essere schiacciati sotto il peso della civiltà. Questo vede Cesare Pavese attraverso le lenti distorte della letteratura: un sogno che chiama “America”.

Adele Porzia

Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.