CinemaPrimo Piano“Brutti, sporchi e cattivi” di Ettore Scola: un racconto di squallore sociale

Nadia Pannone7 Marzo 2020
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La camera si muove circolarmente in una stanza buia, mostrando stralci di giacigli occupati da un’infinità di persone. C’è chi dorme e chi fa sesso, ognuno addossato all’altro, in un ammasso indistinto di corpi. Una ragazzina dai capelli lunghi e gli stivali gialli esce a riempire dei secchi d’acqua come ogni mattina, dando inizio a un nuovo giorno. Un giorno identico ai precedenti e ai successivi, perché in Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola (1976) nulla cambia o si risolve, ma tutto si sussegue ciclicamente allo stesso modo, in un vortice infrangibile di violenza e miseria, volto ad annullare ogni – seppur flebile – tentativo di riscatto. Ci troviamo in una baraccopoli della periferia romana negli anni ’70. Dal Parco di Monte Ciocci, il cupolone svetta in tutta la sua maestosità, quasi a rappresentare il promemoria di una vita migliore. Eppure, è ormai diventato per i personaggi solo una componente scenografica; lo sfondo confuso di una quotidianità meschina, fatta – appunto – di bruttezza, sporcizia e cattiveria.

Giacinto Mazzatella (Nino Manfredi), pugliese emigrato a Roma, condivide la sua baracca con una ventina di persone, tra figli e nipoti. Alla base di questa condivisione, tuttavia, non c’è affetto o empatia, ma solo necessità e opportunismo. Ognuno si guarda le proprie spalle e approfitta, come può, di ogni occasione. Così una donna, chiunque essa sia, rappresenterà una semplice valvola di sfogo per gli impulsi sessuali dei coinquilini; e la nonna, con la sua pensione, sarà considerata solo in quanto unica fonte sicura di guadagno. A monitorare le squallide esistenze dei componenti della famiglia, l’occhio vigile di Giacinto, alcolizzato e aggressivo, devoto unicamente al milione di lire ottenuto come risarcimento per la perdita di un occhio. I suoi giorni scorrono tra sospetti e paranoie, con il fucile sempre pronto a difendere il tanto amato tesoro a costo dell’incolumità dei suoi figli; proprio uno di loro, interpretato da Ettore Garofolo di Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini (1962), ne subirà le conseguenze. Non c’è alcuna differenza, per lui, tra le vite degli esseri viventi che pullulano sotto il suo tetto, siano essi parenti o topi. Avrà, probabilmente, cancellato anche i loro nomi, avvezzo ormai a distinguerli solo in base alle loro volgari abitudini e a chiamarli, di conseguenza, con i relativi soprannomi.

Eppure, tra tanto degrado, riusciamo a scorgere un accenno di umanità: Giacinto sembra sentirsi davvero compreso dalla prostituta Iside, e la poesia recitata da uno dei suoi nipotini riesce a toccare una parte che lui stesso, probabilmente, aveva dimenticato di avere. Ma, come detto in precedenza, nel film non c’è spazio per la compassione o per qualsivoglia forma di redenzione. I sentimenti positivi tentano di scappare dalla gabbia della disperazione in cui sono imprigionati, ma vengono prontamente ricatturati e messi sotto chiave; proprio come i bambini, le uniche anime ancora pure, rinchiusi in un recinto invece di andare a scuola, in attesa che perdano la loro innocenza e siano pronti a catapultarsi nel mondo animale degli adulti.

Scola mette su un eccellente cast corale, in grado di strappare al pubblico non poche risate; grazie anche all’uso abbondante del dialetto romanesco e barese e alla stravaganza di alcuni personaggi, primo tra tutti quello della nonna (interpretata da Giovanni Rovini) che, noncurante di ciò che accade alle sue spalle, continua a guardare programmi educativi in inglese sulla Rai. Tuttavia, come accade sempre quando si parla di Commedia all’italiana (di cui il nome di Ettore Scola è senza dubbio uno dei più illustri), la risata lascia presto il posto all’amarezza; l’umorismo è solo un mezzo per analizzare i problemi socio-economici del Paese e far sì che colpiscano in mondo indiretto lo spettatore, sino a insinuarsi saldamente nella sua coscienza. Eppure il linguaggio eccessivamente grottesco di Scola in Brutti, sporchi e cattivi ha fatto sì che Alberto Moravia individuasse con questa pellicola la creazione di «un nuovo estetismo in accordo coi tempi, che viene ad aggiungersi ai tanti già defunti: quello del “brutto”, dello “sporco” e del “cattivo”». Come osservato dallo scrittore, infatti, pur avendo assorbito l’eredità del Neorealismo, Scola sembra abbandonare qualsiasi tipo di speranza soffermandosi sempre sulla «ricerca di un effetto che colpisca piuttosto che di un tratto che commuova» e insistendo sui particolari disgustosi, sui volti abbrutiti, i dettagli sudici. Esemplificativa, al riguardo, la sequenza in cui Matilde, la moglie di Giacinto (Linda Moretti), recide la carcassa di un animale nello stesso momento in cui pianifica l’assassinio di suo marito: la cinepresa insiste sul sangue e sui brandelli di carne tagliuzzati, in contrapposizione all’indifferenza dei parenti circa l’idea di uccidere il proprio capofamiglia.

Scola illustra con crudo realismo una situazione-limite, ai margini della società. Il fatto che la baraccopoli si trovi su una collina, lontano dalla metropoli, è significativa di quanto alcune realtà, per quanto nascoste o lontano possano apparire, esistono proprio al di là del proprio sguardo; sono concrete e pronte a dilagarsi in tutta la propria miseria, una volta riconosciute. Il film termina così com’era iniziato. La ragazzina dagli stivali gialli si reca ancora, all’alba, a riempire i secchi d’acqua mentre osserva, quasi come un riflesso automatico, il cupolone in lontananza. Forse almeno lei, un giorno, riuscirà a colmare la distanza tra il suo campo e la cupola. Ma c’è qualcosa di diverso questa volta; ci troviamo di fronte a una condanna ereditaria e imperitura, di genitore in figlio. Una storia della periferia romana degli anni ’70, ricollocabile in ogni luogo e in ogni tempo, a simbolizzare l’universalità e la ciclicità della disperazione umana.

Nadia Pannone

Basta poco a renderla felice: un buon film, un po' di musica anni Ottanta, una libreria, qualche conversazione stimolante, un lago, delle luci al neon, una piazza deserta e assolata, delle foto vintage, una coperta e un buon caffè.