CinemaPrimo PianoPercorsi cinematografici: verso un nuovo paesaggio italiano (parte 1)

Alessandro Amato9 Luglio 2019
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Se un discorso sulla necessità di valorizzare il territorio italiano nel cinema sonoro è evidente già a partire dalla fase ruralista della produzione fascista, saltuariamente esaltata da film come Sole (1929) di Alessandro Blasetti e Treno popolare (1933) di Raffaello Matarazzo, esso trova interpretazioni formalmente e ideologicamente più compiute con Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano e Vecchia guardia (1934) dello stesso Blasetti. Tra i temi portanti di questa narrazione troviamo la vita contadina, le tradizioni locali e i benefici portati dalla bonifica dei terreni paludosi a opera del regime. Le due opere citate, tuttavia, si rivelano semplice espressione di una militanza individuale, mentre la politica del sistema mussoliniano vira già verso la mutazione dei suoi ideali in senso borghese e industriale. Infatti, nella seconda metà degli anni Trenta, l’interesse per le campagne si dissolve completamente, sostituito da una parte con monumentali produzioni in costume e dall’altra con rappresentazioni di interni, collocati in fittizi e sereni paesi dell’Est, per una sistematica definizione di quella che oggi è chiamata “commedia dei telefoni bianchi” o anche “commedia ungherese”. Sarà il solito Blasetti a ritrovare la campagna in Quattro passi tra le nuvole (1942), considerato uno dei precursori del Neorealismo insieme a Ossessione (1943) di Luchino Visconti e I bambini ci guardano (1943) di Vittorio De Sica. Seppure altrove venga accusato di patetismo nella descrizione della quotidianità contadina, e per quanto sembri innegabile l’esaltazione forse un po’ ingenua del mondo rurale, secondo il grande storico Gian Piero Brunetta nel film «il senso del reale è recuperato in forme diverse e a vari livelli». Il forte legame della pellicola con la produzione dell’imminente dopoguerra sta nell’anticipazione dell’archetipo del viaggio offerto dalle peregrinazioni del milite e in generale dell’uomo sofferente. In questo caso il protagonista è un commesso viaggiatore in trasferta, eppure l’idilliaca sosta nelle campagne a causa del guasto di una corriera viene presto problematizzato dagli sceneggiatori e mutato in esplorazione di una realtà effettivamente invisibile sugli schermi nazionali dell’epoca.

Solo con la fine del secondo conflitto mondiale, e conseguente riscoperta dell’Italia, questo elemento si fa colonna portante di un’estetica trasversale a molto cinema tra la seconda metà degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta. Il Paese stesso diventa un set, oggetto di sguardo e reinterpretazione continua. Autori di varia provenienza si spostano sul territorio come i loro protagonisti, ripercorrendo gli itinerari di soldati, borsari neri, banditi, emigranti. Non a caso il Gino del film viscontiano è un vagabondo. E se è vero che i film italiani dell’immediato dopoguerra hanno principalmente un’ambientazione centro-meridionale, non mancano significative escursioni nel Nord, dalla Torino de Il bandito (1946) di Alberto Lattuada al vercellese di Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis, dalla Milano de Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano alla valle padana che, dopo il capolavoro viscontiano, diventa l’epicentro mitico di diverse pellicole. Il Centro-Sud, dal canto suo, offre gli spazi per la rappresentazione delle ambiguità in seno alla ricostruzione, soprattutto nelle sue dinamiche urbane. In mezzo alle numerose lievitazioni dei principi neorealisti all’interno dei moduli della commedia, sviluppati ad esempio da Luigi Zampa, assume importanza simbolica un luogo che è già espressione di un sentimento, ovvero quell’entità geografica che orbita intorno al delta del Po.

Fra i primi a scriverne è Michelangelo Antonioni, nell’aprile del 1939, sulla rivista Cinema: «Effettivamente un alone di simpatia, potremmo dire d’amore, circonda questo fiume che, in un certo senso, è come il despota della sua vallata. La gente padana sente il Po. In che cosa si concreti questo sentire non sappiamo; sappiamo che sta diffuso nell’aria e che vien subito come sottile malia». Con tali premesse il giovane critico si appresta a immaginare un film sul fiume senza ancora sapere se sarà un’opera a soggetto o un documentario. Ciò che conta è esprimere senza riserve quella «intimità tutta speciale» che egli ravvede nel rapporto degli uomini con il paesaggio fluviale. Verrebbe evidenziata la lotta della popolazione contro le piene, la sofferenza e il suo rientrare nell’ordine naturale delle cose, la solennità della conoscenza e la lentezza dei movimenti, ma anche l’adattamento alla moderna meccanizzazione delle attività. «Tutto ciò può sembrare – afferma Antonioni – ma non è letteratura». Si vuole che sia pienamente cinema e «resta a vedere come può tradursi in atto». L’oggetto fiume, con gli elementi naturali e umani che lo accompagnano, risulta abbondante e suggestivo, ma l’autore riconosce subito il pericolo delle «facili inclinazioni retoriche». Facendo poi riferimento allo stimato corto The River (1938) dell’americano Pare Lorentz, documentario dedicato al progetto della Tennessee Valley Authority per intervenire sui disastri causati dalle inondazioni del Mississipi all’imbocco del Golfo del Messico, Antonioni diffida – in prospettiva di future scritture per lo schermo – da ogni genere di ibridismo, in quanto «non sarà mai troppo celebrata la forma che detta indirizzi precisi e non consente incertezze».

Una formula non sarebbe migliore dell’altra, secondo il futuro regista, poiché l’essenziale è sapere sempre quello che si vuole ottenere. Conclude, infatti, auspicando «una pellicola nella quale non il folclore, cioè un’accozzaglia di elementi esteriori e decorativi, destasse l’interesse, ma lo spirito, cioè un insieme di elementi morali e psicologici; nella quale non le esigenze commerciali prevalessero, bensì l’intelligenza». Parole che trovano parziale eco in un articolo di De Santis apparso sulla stessa rivista esattamente due anni più tardi. Guardando a prodotti del recente passato come Tabu: A Story of the South Seas (Tabù, 1931) di Friedrich Wilhelm Murnau, vi si sostiene che il cinema ha sempre più bisogno dell’elemento ambientale in quanto esso risulta il più immediato e il più comunicativo. Ci si domanda, poi, come si possa comprendere l’uomo se lo si isola dal contesto in cui vive giorno dopo giorno, con il quale instaura un dialogo costante, sul quale lascia il segno della sua attività, in cui incontra altri uomini. Un incontro che dovrà essere evidenziato nelle sua specificità, come accade nel muto The Crowd (La folla, 1928) di King Vidor, se la natura ha tanta forza sull’uomo da «forgiarlo a sua immagine e somiglianza». Insomma, dove per Antonioni è il fiume a guidare i ritmi della vita di chi lo vive, per De Santis è una più generica ambientazione a «determinare il dramma dei protagonisti».

Alessandro Amato

Nato a Milano, conclude gli studi a Torino, dove continua a lavorare nell'ambito critico e festivaliero. Collabora con "A.I.A.C.E." e il magazine "Sentieri Selvaggi". Dirige rassegne di cortometraggi e cura eventi per la valorizzazione del cinema italiano. Quando capita è anche autore di sceneggiature per la casa di produzione indipendente "Ordinary Frames", di cui è co-fondatore.