Gli studi recenti mettono in risalto l’importanza della componente vegetale nella dieta umana del Paleolitico, grazie soprattutto alle evidenze costituite dalle analisi isotopiche, dai residui vegetali rinvenuti nei siti, dai granuli di amido nel tartaro dei denti e sugli strumenti per la macinazione. Il primo ritrovamento, una macina e un pestello-macinello con granuli di amido di tifa rinvenuti nell’accampamento gravettiano di Bilancino (Firenze), ha fornito la prima testimonianza della produzione di farina nel Paleolitico. Le analisi dei residui vegetali hanno dimostrato come gli uomini del Gravettiano antico raccoglievano ed elaboravano vari tipi di piante, come le ghiande e l’avena selvatica (Avena barbata). Le condizioni di conservazione dei granuli di amido di avena hanno permesso di identificare l’uso di un trattamento termico avvenuto in una fase precedente alla macinazione, forse per accelerare il processo di essiccazione delle cariossidi e rendere più agevole la macinazione.
La seconda fase della sperimentazione ha quindi interessato il processo di lavorazione dell’avena. Il principale obiettivo di questa fase del progetto è stata la ricostruzione sperimentale dell’intero processo di lavorazione delle cariossidi di avena, a partire dall’individuazione delle specie selvatiche, per passare alla raccolta, al decorticamento, al trattamento termico, fino alla macinazione. Inizialmente si è dovuta utilizzare Avena sativa, non essendo disponibile un quantitativo sufficiente di prodotto selvatico (Avena barbata) al momento della sperimentazione. Come strumenti per la macinazione sono stati raccolti dei ciottoli di arenaria con caratteristiche morfometriche simili al pestello di Paglicci (32.614±429 cal BP). Non essendo state ritrovate macine nel record archeologico sono state utilizzate sia basi in pietra (ciottoli appiattiti di arenaria), che in legno (tagliere e mortaio). I processi che sono stati sperimentati sono il decorticamento dell’avena, il trattamento termico e la macinazione. Il decorticamento, necessario a rendere qualsiasi cereale utilizzabile per l’alimentazione umana, si è rivelato una fase cruciale nel processo di elaborazione dell’avena. Questa operazione si è dimostrata particolarmente complessa e i vari tentativi – con o senza ammollo, con o senza trattamento termico, variando i tipi di supporto di base – non hanno al momento consentito di individuare un metodo efficace per liberare le cariossidi dai rivestimenti esterni.
La sperimentazione ha interessato poi anche le fasi relative alla raccolta dell’avena selvatica, con l’individuazione delle varie specie, degli areali di diffusione e della stagionalità. I ritrovamenti dimostrano che le tecnologie per la produzione di farine erano sviluppate almeno fin dagli inizi del Gravettiano ed estese su una vasta area dell’Europa, dall’Italia meridionale alla pianura del Don in Russia, in tipi di insediamenti molto diversi fra loro. Un elemento che accomuna le macine da vegetali è la varietà dei granuli di amidi presenti, in quanto tutte sono state utilizzate per macinare parti diverse – semi, ghiande, radici – di piante diverse, allo scopo di ottenere un prodotto ricco di amido, la farina. Le strategie per la produzione di cibi ad alto contenuto di carboidrati variano in relazione all’ambiente e alle risorse vegetali disponibili. Nel caso di Paglicci, ad esempio, la raccolta di cariossidi da graminacee selvatiche e anche di ghiande ha richiesto l’introduzione di un trattamento termico che precede la macinazione. Questa fase non è invece attestata a Bilancino o Pavlov, dove le farine venivano ricavate da organi sotterranei come i rizomi per i quali è sufficiente l’essiccamento al sole. La produzione di farina richiede comunque vari passaggi di manipolazione della pianta prima della cottura a seconda delle differenti parti utilizzate. La macinazione richiede una disidratazione preventiva.
La varietà morfotecnica dei manufatti per la produzione di farina rinvenuti su una vasta area dell’Europa appare pertanto come il risultato dell’adattamento a contesti economici e ambientali diversi di una tecnica che doveva essere comune e diffusa. La conoscenza tecnica per la produzione di farine può aver rappresentato un’importante differenza innovativa fra il comportamento degli ultimi neandertaliani e quello degli antichi sapiens europei. Si tratta di un’attività economica complessa che necessita di un notevole investimento di risorse da parte della comunità: questo dimostra che l’introduzione delle farine nelle strategie di sussistenza dei gruppi umani del Paleolitico superiore doveva rivestire un ruolo non secondario. L’importanza della farina consiste infatti nell’alto contenuto energetico concentrato in un prodotto poco voluminoso e poco pesante, quindi facilmente trasportabile, più facilmente conservabile delle proteine di origine animale e pertanto utilizzabile anche quando non erano disponibili risorse fresche di origine sia vegetale che animale.

Alice Massarenti
Nata a Mirandola, in provincia di Modena, classe ’84, si è laureata in Archeologia e storia dell’arte del vicino oriente antico e in Quaternario, Preistoria e Archeologia con una tesi in Evoluzione degli insiemi faunistici del Quaternario. Ha un’ossessione per i fossili e una famiglia che importuna costantemente con i racconti delle sue ricerche sul campo.