LetteraturaPrimo Piano«Animula, vagula, blandula»: il commiato dell’anima secondo la poetessa Anna Laetitia Barbauld

Lucia Cambria13 Giugno 2022
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Poche furono le penne femminili che a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo arricchirono l’humus letterario sulle cui basi sarebbe poi sorto il Romanticismo. Tra queste, si vuole qui parlare di una scrittrice e poetessa poco nota e sprofondata – come tanti altri – in un calderone del dimenticatoio: Anna Laetitia Barbauld, nata nel 1743 e dotata fin dall’infanzia di uno spiccato ingegno alimentato dall’istruzione classica ricevuta dal padre. Fu poetessa, saggista, critica letteraria, editrice e autrice di letteratura per bambini.

La sua attività letteraria promuoveva i valori illuministi, ma la sua poesia era già protesa verso l’imminente periodo romantico. Durante l’Ottocento è stata ricordata solo per la sua letteratura per l’infanzia ed è stata poi dimenticata nel corso del secolo successivo, fino a che la sua memoria non venne riesumata negli anni ‘80 del Novecento.

Nel 1773 la Barbauld pubblicò la sua prima raccolta di poesie intitolata Poems, la quale ebbe quattro edizioni in un solo anno. Dopo le nozze, la scrittrice si dedicò alla riscrittura di alcuni salmi, attività parecchio comune nel Settecento, e li pubblicò assieme a un saggio attraverso il quale espose alcune delle sue ideologie religiose. Fu dopo l’adozione di un bambino che la Barbauld si dedicò alla composizione dei suoi più celebri libri: Lessons for Children (1778-79) e Hymns in Prose for Children (1781).

Nel 1802 i coniugi Barbauld si trasferirono a Stoke Newington. Qui il marito iniziò a sviluppare dei comportamenti riconducibili alla schizofrenia, fino a che nel 1808 si suicidò annegandosi nel fiume New River. Questi avvenimenti fecero sprofondare la scrittrice in una profonda depressione. L’ultima opera composta fu Eighteen Hundred and Eleven (Milleottocentododici) nel 1812: secondo la critica più recente, il poemetto è da includere a tutti gli effetti nella corrente romantica. Anna Laetita Barbauld morì nel 1825. Sublime poetessa, il Newcastle Magazine la descrisse altresì quale «una delle più potenti ed eloquenti scrittrici di prosa».

Dimenticata, e poi riscoperta: infatti, se è vero che le persone muoiono e cadono nell’oblio dei secoli e delle generazioni, lo stesso non può dirsi della poesia. Essa percorre gli anni rimanendo immutata, rilucendo di quella stessa opaca brillantezza che apre una breccia tra il passato e il presente. E soprattutto una poesia sembra aver sortito questo effetto di eterno vivere: Life, composta quando la scrittrice aveva da poco compiuto 80 anni (sarebbe morta due anni dopo). In merito alla poesia, in particolare dell’ultima stanza, William Wordsworth avrebbe detto: «non sono solito invidiare le cose belle degli altri, ma sarei tanto voluto essere io ad aver scritto quei versi».

L’epigrafe della poesia è il primo verso dell’epitaffio composto dall’imperatore Adriano come commiato dalla sua «piccola anima smarrita e soave»:

 

«Animula, vagula, blandula»

 

La prima strofa si apre con un vocativo per interpellare la vita stessa. La poetessa, così come Adriano, sa che la sua anima sta per lasciarla e quindi si rivolge alla vita per l’ultima volta:

 

«Vita! Io non so cosa tu sia
ma so che io e te dobbiamo separarci;
e quando o come o dove c’incontrammo,
mi è ancora sconosciuto»

 

A questo punto la poetessa dice di sapere quando quella vita se n’è andata e che le sue membra, il suo corpo, è tutto quello che le resta. Nel “divorzio” tra corpo e anima, dove potrà ritrovare il proprio io?

 

«Ma questo so, dove sei fuggita,
ovunque ripongano queste membra, questa testa,
nessuna zolla di terra sarà così priva di valore
così come quello che di me rimane.
Oh dove, dove fuggi?
Dove si piega invisibile il tuo percorso?
E in questo strano divorzio,
ah! dimmi dove devo cercare questo io composto?»

 

L’«io composto», ovvero l’io fatto dall’unione tra corpo e anima, è ormai perduto. Dopo una seconda stanza in cui si chiede ancora dove la sua essenza sia finita, giunge l’ultima, nella quale si dispiega tutta la potenza lirica del componimento:

 

«Oh vita! Siamo state a lungo insieme,
nel buono e nel cattivo tempo;
arduo è separarsi quando si è cari amici;
forse ci costerò un sospiro, una lacrima;
poi va’ via, dà un piccolo preavviso,
scegli il tuo tempo;
non dirmi buonanotte, ma in modo gioioso
augurami un buon giorno»

 

La nascita a una nuova vita, a un nuovo giorno, è una concezione tutta cristiana e che in un certo senso si esprime come assioma universale, travalicando la pura concezione teologica e distaccandosene, divenendo in questo modo una verità assoluta. La mortalità dell’essere umano, equiparato a una zolla di terra che giace inerme, è ravvivata dalla convinzione che la vita non sia qui, ma in un punto più elevato dalle cose del mondo.

Lucia Cambria

Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.