LetteraturaPrimo Piano“Alla sua amante ritrosa”: la poesia di Andrew Marvell sulla vita che «si fugge tuttavia»

Lucia Cambria7 Febbraio 2022
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«Mentre parliamo il tempo è già in fuga, come se provasse invidia di noi. Afferra la giornata confidando il meno possibile nel domani». Così Orazio parlò di quel «afferra la giornata», erroneamente tradotto in «cogli l’attimo», che per molti di noi è ormai divenuto un motto: “carpe diem”. Bisogna quindi avere fiducia solo nel presente, l’unica vera certezza nella vita dell’uomo.

E proprio attorno a questo concetto ruota To his coy mistress (Alla sua amante ritrosa), la poesia più celebre di Andrew Marvell, poeta metafisico e politico vissuto nel XVII secolo. La poesia metafisica è caratterizzata principalmente dal concetto che in inglese è denominato “wit” (“spirito”): viene dato molto spazio all’espressione delle emozioni, che vengono esternate sotto una veste razionale e intellettuale. Marvell, insieme a John Donne, fu tra i maggiori esponenti. Egli fu dal 1657 assistente di John Milton, per il quale scrisse anche una poesia d’elogio dedicata a Paradiso perduto, e due anni dopo divenne membro del Parlamento. I suoi scritti politici trattavano la tolleranza religiosa e attaccavano l’abuso del potere monarchico.

La poesia To his coy mistress è divenuta icona della poesia metafisica, oltre a essere anche uno dei componimenti più celebri in lingua inglese. Come si è accennato, il tema centrale attorno al quale questi versi ruotano, ha a che vedere col concetto oraziano del “carpe diem”: il poeta, un po’ come Lorenzo il Magnifico nella celebre Il trionfo di Bacco e Arianna («Quant’è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia! / chi vuol esser lieto, sia: / di doman non c’è certezza»), prega la sua amata affinché goda dei giorni della sua gioventù per concedersi – ovviamente con un riferimento carnale – a lui e alla sua devozione. Per far ciò, Marvell fa leva su un tema che si interseca sempre con quello dell’amore: la morte. Inizia la propria opera di convincimento spiegando all’amata che se avessero «abbastanza Mondo e Tempo» la sua ritrosia non sarebbe un problema, poiché avrebbero l’intera eternità a disposizione per vivere e lei potrebbe rifiutarsi anche fino al giorno dell’Apocalisse. Il gioco sensuale del poeta inizia col lodare ogni singola parte del corpo della donna, giurandole che disponendo dell’immortalità almeno

 

«Cent’anni se ne andrebbero a lodare
I vostri occhi e a contemplare il vostro volto.
Duecento per adorare uno dei vostri seni
E trentamila almeno per adorare insieme tutto il resto.
Un Evo intero per ciascuna parte, e l’ultimo
Alfine mostrerebbe il vostro cuore»

 

L’unica cosa che impedisce tutto questo idilliaco cerimoniale del corpo femmineo è l’incedere inesorabile del tempo:

 

«Ma alle mie spalle odo continuamente
L’alato carro del tempo che si avvicina veloce»

 

L’«alato carro del tempo» porta con sé, inevitabilmente, la morte. E proprio quelle belle carni che poco prima ha lodato, servono adesso per dimostrare quali siano le conseguenze brutali del progredire degli anni e, dopo di essi, dell’arrivo dell’ora che tutto suggella:

 

«La vostra bellezza non sarà più ritrovata;
E non si potrà più udire nel vostro sepolcro di marmo
Echeggiare il mio canto: solo i vermi tenteranno
Quella verginità a lungo preservata:
E il vostro strano onore sarà mutato in cenere;
Tutta la mia lussuria trasformata in polvere»

 

La bellezza della donna sarà svanita e, con essa, anche il canto d’amore, il quale rimarrà soffocato dalla lapide sepolcrale. Solo ai vermi allora sarà concesso di godere di quella integrità invano conservata. L’opera di persuasione raggiunge qui l’apogeo: il bel corpo femminile è prima lodato in ogni sua parte, poi è preso a effigie della morte e della consunzione, descritta intenzionalmente con crudezza di particolari. La tomba, quindi, non è luogo d’amore:

 

«Certo la tomba è un luogo intimo e bello
Ma dubito che qualcuno vi voglia fare all’amore»

 

Il piacere carnale non sconfiggerà di certo la morte, ma è ciò che di più naturale e di ragionevole può esserle opposto:

 

«Tutta la nostra energia, tutta la nostra dolcezza
Cerchiamo di addensarla in una sola sfera:
Gettiamo i nostri piaceri con rude violenza
Oltre i cancelli di ferro della vita»

 

La visione paradisiaca del principio della poesia, della fantasia di vivere e amarsi per sempre, finisce per essere annichilita dalla realtà più amara: quella in cui è la morte a regolare le azioni, poiché essa, sull’«alato carro del tempo», insegue l’umanità fino all’ultimo dei suoi istanti. La luce dei primi versi si spegne quindi procedendo verso la metà del componimento per poi riaccendersi con questi versi finali:

 

«Così sebbene non si possa obbligare il nostro sole
A fermarsi, possiamo tuttavia obbligarlo a correre»

 

Il sole – che traccia con la sua traiettoria il trascorrere del tempo – non può essere fermato, così come avvenne a Giosuè dopo le sue preghiere. La poesia di Marvell, partendo da questo presupposto, esprime l’urgenza di vivere appieno questa vita, quella terrena, poiché nella sua visione è l’unica possibile.

Lucia Cambria

Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.