L’Ottocento è stato il secolo della riscoperta delle origini. Basti pensare alla grande opera di raccolta che i folcloristi hanno svolto nei vari paesi europei, alla ricerca di leggende e storie che andassero a ricostruire il ponte che ci lega al passato. Si è cercato di dare nuova voce all’anonimato di quei testi che per secoli hanno mantenuto il loro corso sotto la superficie della nostra civiltà, la quale – così come le radici degli alberi alla ricerca di acqua – ha tratto continuo nutrimento da questi tesori spesso sconosciuti ma che, inconsapevolmente, hanno scolpito l’identità della nostra cultura.
Nella sua Raccolta amplissima di canti popolari siciliani, il filologo catanese Lionardo Vigo, negli anni Settanta del XIX secolo, raccolse un gran numero di canti originari dell’isola, tutti naturalmente scritti in vernacolo siciliano. Quello che qui si propone, è un esempio del cosiddetto “Lamento della Vergine”, ovvero una tipologia di canto avente come tema lo struggimento di Maria per la morte di Cristo. Ne esistono diverse varianti – ovviamente in diversi dialetti italiani – e hanno tutte come radice, come si vedrà in seguito, le laudi medievali.
A partire dalla fine del XIII secolo, infatti, il teatro medievale venne rivoluzionato grazie alla formazione di confraternite che iniziarono a inscenare degli episodi tratti dai Vangeli, in modo particolare la Passione: l’evento più di tutti carico del pathos nel quale il pubblico, che veniva coinvolto in una vera e propria celebrazione, poteva immedesimarsi in ciò a cui assisteva; non meno importante, poté ritrovare in quel Dio fattosi carne, emozioni umane e terrene.
Tutti vui cunsidirati,
Chi passati per la via,
Si mai pena arritrovati
Simili alla pena mia,
Piangiriti con pietati,
Condulenduvi di mia;
Lu miu figghiu vidiriti
Mortu in cruci, amara mia!
Tuttu chinu di feriti,
Cui di vui non chianciria (piangerebbe)?
Donni tutti (donne tutte), per la strata
Mi fariti cumpagnia,
Chi fui (che io fui) matri sconsolata
Persa sula alla strania (persa da sola in terra strania):
Figliu, comu vogliu fari,
Chi su’ morta, amara mia!
Nullu ajutu ti pò dari,
La scuntenti (tristezza) di Maria.
Figliu, la tua bella testa,
Chi era tantu dilicata,
Non mi cessa la timpesta
Mentri è di spini incoronata.
Figliu, lu tuo bellu visu,
Ch’era un tempu stralucenti,
Facia in terra un paradisu,
Hora è un mari di tormenti;
Undi sunnu li capilli,
Chi parenu (sembravano) fila d’oru,
Non ci sunnu più di quilli,
Tutti scippati (tolti) ti foru:
E li ebrei foru quilli,
Chi guastaru (rovinarono) lu tesoru.
E si miro li toi piedi,
Manu e latu lacerati,
Trapassati con tri chiova (chiodi),
E con lancia da suldati,
E lu chiantu (pianto) mi rinova,
Caminandu pri li strati;
Non haju amici, né parenti,
Chi mi fannu cumpagnia,
Sula, afflitta, amaramenti
Chiangirò (piangerò) la pena mia.
In questo canto viene messo in evidenza il tratto più umano del Cristo, il quale è descritto attraverso dei dettagli che ne esaltano la misera condizione: il corpo pieno di ferite, il capo coperto di spine, il viso stravolto dai patimenti, i capelli strappati e le membra lacerate e trapassate dai chiodi e dalla lancia. E all’umanità di un Cristo morto, corrisponde la naturale e umana afflizione di una madre.
Come si diceva, la radice di questi canti è medievale e ciò è evidente anche dalle scelte di stilemi, di lessico e di immagini evocate. Il canto si apre con un invito, rivolto agli uditori, di considerare la pena di una madre addolorata per la morte del figlio. E lo stesso ritroviamo nella lauda che potete ascoltare in questo video: si tratta di un testo del tardo Trecento, in cui Maria – dopo la morte di Cristo – si veste a lutto. Il video proposto fa parte di un progetto, per adesso solo online, dell’iniziativa culturale “Dante per tutti”, che intende ripercorrere le origini del teatro italiano attraverso la lettura di brani drammatici medievali. La verosimiglianza è evidente già dai primi versi: «Voi che per la via passate, / or guardate pietança», in cui Maria vuole rendere manifesto il proprio dolore, prima con le parole, poi con l’esplicito ed emblematico gesto di indossare un manto nero.

Lucia Cambria
Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.