LetteraturaPrimo PianoAleksandr Puškin e il suo “Eugenij Onegin”: il comune destino d’una morte per amore

Lucia Cambria20 Giugno 2022
https://lacittaimmaginaria.com/wp-content/uploads/2020/12/657u67u657u6.jpg

Aleksandr Puškin sembra aver inevitabilmente attorcigliato le fila del proprio destino a un lavoro da lui stesso composto, un romanzo in versi dal quale – tra il 1877 e il 1878 – Pëtr Il’ič Čajkovskij ha poi tratto un’opera. Si sta parlando ovviamente di Eugenij Onegin. Come infatti si vedrà, la fine dello scrittore russo è stata in qualche modo predetta dalle vicende che si svolgono in quest’opera, la quale risulta oggi essere quasi un beffardo presagio.

Puškin nacque a Mosca nel 1799, da una famiglia di antichissima nobiltà. Sin dai primi anni si istruì grazie alla ricca biblioteca del padre, che lo mise in contatto con Voltaire, Molière, Jean Racine, Torquato Tasso e altri. Uscito dal liceo nel 1817, venne assunto come impiegato al Ministero degli Esteri. La prima sua opera venne pubblicata nel 1820, il poema Ruslan e Ljiudmila. Negli anni tra il 1820 e il 1823 iniziò la stesura del romanzo in versi Eugenij Onegin. Nel 1823 si trasferì a Odessa alle dipendenze del governatore generale Voncorov, ma l’anno successivo venne espulso dal servizio per il contenuto di una sua lettera privata, nella quale scriveva che il «puro ateismo» poteva essere considerato come una possibile filosofia. Nel 1829 si innamorò della giovanissima Natal’ja Gončarova, la quale respinse la sua proposta di matrimonio. Dopo che il poeta ebbe trascorso cinque mesi in Transcaucasia, dove rimase per temprare spirito e genio artistico, si propose nuovamente alla fanciulla, che stavolta accettò di convolare a nozze con lui. Nel febbraio del 1831 portò a termine l’Eugenij Onegin e passò dalla poesia alla prosa, componendo I racconti di Belkin e La storia del villaggio di Gorjiuchino.

La vita coniugale con Natal’ja non fu particolarmente felice, poiché tra i due vi era troppa distanza: la donna infatti non conobbe e non comprese mai fino in fondo lo spirito del marito. Nonostante ciò, fu per causa di lei che Puškin andò incontro alla propria fine: iniziò a sospettare della moglie, la quale era corteggiata dal barone francese Georges D’Anthès, che sposò poi la sorella di Natal’ja. Dopo questo matrimonio, il poeta tornò a covare dei sospetti e quindi decise di sfidare a duello il barone. Questo si tenne il 27 gennaio del 1837 e Puškin rimase gravemente ferito. Morì due giorni dopo.

Con un duello dall’esito mortale termina anche il romanzo in versi Eugenij Onegin, pubblicato prima a puntate e poi, per intero, nel 1833. Le 389 stanze composte da quattordici versi in pentametro giambico sono raccontate da un narratore esterno, che enfatizza il tono drammatico della trama. Onegin è un dandy di San Pietroburgo che si intrattiene tra balli, feste e concerti e che dopo la morte dello zio eredita una proprietà in campagna. Qui stringe amicizia col giovane poeta Vladimir Lenskij, fidanzato con Olga, la cui sorella – Tatiana – si innamora di Eugenio, che non la ricambia. Lenskij insiste però che l’amico prenda parte al ballo organizzato in occasione dell’onomastico di Tatiana. Eugenio decide di vendicarsi provando a sedurre Olga, che rimane lusingata dal suo corteggiamento. Lenskij sfida quindi l’amico a duello e ne rimane ferito mortalmente. L’enorme senso di rimorso costringe Eugenio a lasciare la propria dimora. Alcuni anni dopo incontra di nuovo Tatiana e scopre che si è sposata con un principe. Onegin si rende conto del grande errore che ha fatto nell’averla respinta e le confessa il suo amore, ma è ormai troppo tardi: Tatiana, sebbene ancora innamorata di lui, preferisce essere fedele al marito.

Proprio la fine del poeta Lenskij, toccherà allo stesso Puškin. E l’ingiusta fine di un uomo è il tema centrale attorno al quale ruota l’intera opera e, se vogliamo, anche la vita del poeta. Puškin traccia questo tema attorno all’egoismo del protagonista, alla sua vanità e alla sua indifferenza nel relazionarsi ai sentimenti degli altri: la totale mancanza di empatia. Questa crudeltà è rappresentata già dal principio del romanzo, quando Eugenio si chiede – intonando una sorta di canto macabro – quando è che lo zio morirà: «Quando all’inferno dunque te n’andrai?». L’inferno, alla fine, giunge però per Onegin, falciatore d’innocenza, prima disprezzando il sincero amore di Tatiana e poi ponendo fine alla vita dell’amico Lenskij, il quale muore sì, ma per amore e quindi senza soffrire:

 

«Lentamente la mano porta al cuore
E cade. Nello sguardo che s’oscura
È già la morte, ma non v’è dolore.

[…] e nel suo aspetto
C’era una pace strana conturbante:
Dalla fresca ferita del suo petto
Scorrea fumando il sangue. Ed un istante
Prima soltanto in questo stesso cuore
Ancora palpitavano l’amore,
La speranza, lo sdegno l’ardimento,
E della poesia l’inebriamento»

 

Questo è ciò che Puškin vuol dire: la morte c’è, ma non è tutta uguale, c’è anche quella senza dolore. E vorremmo pensare che anche la sua sia stata così, perché intrisa del più nobile dei sentimenti. Per questo il capitolo del duello ha come epigrafe questi versi di Francesco Petrarca:

 

«Là, sotto giorni nubilosi e brevi
Nasce una gente a cui ‘l morir non dole»

Lucia Cambria

Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.