Nel 1912, a soli trent’anni, James Joyce prende una decisione definitiva: non tornerà mai più nella città che gli ha dato i natali. Proprio quell’anno lo scrittore irlandese, ormai stabilitosi a Trieste, si era recato un’ultima volta a Dublino per supervisionare la pubblicazione della raccolta Gente di Dublino, ma una delusione cocente lo attendeva, nuovamente, dietro l’angolo. La stampa dell’opera difatti, tacciata di essere oscena, era stata interrotta e le copie già pronte, distrutte. Nonostante avesse terminato nel 1907 la stesura dell’ultimo dei racconti, per lungo tempo Joyce non era stato in grado di trovare un editore disposto ad assumersi il rischio di mandarli in stampa. La svolta era avvenuta nel 1909, quando George Roberts – co-fondatore della publishing house Maunsel&Co di Dublino – gli aveva assicurato la sua disponibilità, rivelatasi, tre anni dopo, limitata e piena di riserve. L’opera venne infine pubblicata nel 1914 a Londra da Grant Richards, ma ciò che importa è che, nonostante il felice esito della vicenda, Joyce non avrebbe mai perdonato Dublino per non avergli riconosciuto i suoi meriti.
Un rapporto turbolento quindi, quello tra Joyce e la capitale irlandese, che tuttavia non gli impedì di dar vita a uno dei capolavori indiscussi della letteratura del Novecento: Ulisse, in cui la medesima città non rappresenta solo un elemento viscerale ma la “conditio sine qua non” al divenire stesso del romanzo. Qualunque cosa credessero i suoi concittadini, Ulisse è Dublino e Dublino è Ulisse. La capacità tutta joyciana di sviscerarne angoli meno conosciuti, abitanti più stravaganti, nonché vizi e virtù, ha fatto sì che l’opera sia divenuta oltretutto anche una sorta di guida di viaggio indispensabile per chiunque voglia avventurarsi nel groviglio di pub, ristoranti, birrerie che brulicavano nella Dublino di inizio XX secolo.
E dunque, proprio parlando di gastronomia, non può non saltare all’occhio a quale dei due protagonisti di Ulisse siano maggiormente connessi languori di stomaco e attacchi di fame. Difatti, mentre Stephen Dedalus – l’aspirante scrittore, il “figlio” anoressico – non tocca cibo per l’intera durata del romanzo, che copre un lasso di tempo all’incirca di venti ore, Leopold Bloom – l’ebreo errante, il “padre” spirituale – è costantemente accompagnato da descrizioni di profumi, sapori, odori provenienti da cucine, macellerie, retrobotteghe, bettole di ogni sorta. La sua stessa entrata in scena all’inizio della seconda parte del romanzo – la cosiddetta Odissea, nell’episodio IV, Calypso – coincide con un’immediata descrizione di quelli che sono i suoi gusti a tavola, come se Joyce sentisse un impellente bisogno di connotare Mr Bloom attraverso le papille gustative, ancor prima che caratterialmente. Muovendoci nel “mare magnum” delle elucubrazioni “leopoldine”, giungiamo all’inizio dell’VIII epidosio, i Lestrigoni, in cui compare un inaspettato “Proof of the pudding”, ossia “Sei come mangi”, il cui senso si può riassumere nell’asserzione: mutiamo in base a ciò che mangiamo. Una convinzione lungimirante che si fa inoltre notare per la sua puntualità, soprattutto quando associata a un personaggio il cui numero delle certezze appare, in generale, piuttosto limitato.
Quali sono i gusti di Leopold Bloom? Oltre a non condividere affatto diete vegetariane di qualsiasi tipo, tende anche a guardare a questi particolari avventori con un sospetto tale da definirli «eterei tipi letterari, tutti uguali»; insomma per uno come lui è impensabile rinunciare alla carne. Egli infatti adora mangiare organi interiori di animali e volatili, predilige la “giblet soup” (a base di pollo) e i “grilled mutton kidneys” (reni di montone al forno), per non parlare del «caldo odore di testina di vitello» che va diffondendosi dalla bottega di un tale di nome Harrison. Nel menù non possono poi mancare i dolci, che siano un burroso “jam roly-poly”, dei semplici “buns”, del pane tostato con burro o delle speziate “Banbury cakes”, l’effetto è il medesimo: qualsiasi cosa è in grado di stimolargli l’acquolina.

Lucrezia Giorgi
Nata nelle Marche, trapiantata a Bologna da anni, fin da piccola voleva fare la scrittrice. Difatti ora che è cresciuta passa le giornate a leggere e scrivere. Spinta da un grande amore per il Nord Europa, ha vissuto tra Svezia e Regno Unito; nel frattempo si è laureata in Antropologia, religioni e civiltà orientali. Adora i gialli di Agatha Christie, Virginia Woolf, il cinema francese e tante altre cose.