LetteraturaPrimo PianoA duecento anni dalla morte di John Keats: l’«esistenza postuma» del poeta romantico

Lucia Cambria22 Febbraio 2021
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Il 3 febbraio del 1820 John Keats scrisse a Charles Armitage Brown: «Conosco il sangue di quel colore! È sangue arterioso. Non mi inganna quel colore. Quella goccia di sangue è la mia garanzia di morte. Morirò». I sintomi della tubercolosi si facevano sempre più evidenti nel giovane poeta inglese e lui, che aveva studiato medicina – sebbene l’avesse poi abbandonata per scrivere – sapeva riconoscere tutti quei segni. Non restava che una scelta: trasferirsi in Italia, il paradiso degli esuli. Ma quel viaggio sarebbe stato per Keats l’ultimo e non avrebbe avuto più un ritorno. Il 23 febbraio del 1821, infatti, quel giovane cuore si fermerà per sempre nella casa al civico 26 di Piazza di Spagna.

Dopo aver trascorso un periodo di quarantena sulla nave attraccata al porto di Napoli a causa di un’epidemia di colera, Keats e Joseph Severn, l’amico pittore che gli resterà accanto fino alla fine, giunsero a Roma il 14 novembre del 1820. Due settimane dopo, il 30 novembre, il poeta scrive la sua ultima lettera all’amico Charles Armitage Brown. Sono parole piene di sofferenza fisica e spirituale, che trasudano la consapevolezza di essere arrivato al punto estremo di una breve esistenza: «Scrivere una lettera è diventata per me la cosa più difficile al mondo. Lo stomaco continua a dolermi, e peggiora se apro un libro, eppure sto molto meglio rispetto alla quarantena. Mi perseguita la sensazione che la mia vita reale sia ormai passata e che sto conducendo un’esistenza postuma».

Questa «esistenza postuma» terminerà, come già detto, nel febbraio del 1821. Ma essa continua a palesarsi attraverso i vari poeti che negli anni successivi dedicarono a Keats dei versi per ricordarlo e, soprattutto, attraverso la pietra tombale che oggi giace ai piedi della Piramide Cestia a Roma. Questa lapide rappresenta l’ultimo desiderio del poeta, ovvero quello di essere sepolto in una tomba senza nome né data, con incise solo le parole «Hier lies One whose Name was writ in Water» («Qui giace colui il cui nome fu scritto sull’acqua»). Severn e Brown fecero però erigere una lapide raffigurante una lira con le corde spezzate e l’epitaffio:

 

«This Grave
Contains all that was Mortal
Of a
Young English Poet
Who
On his Death Bed, in the Bitterness of his Heart,
At the Malicious Power of his Enemies
Desired
These Words to be
Engraven on his Tomb Stone:
Here lies One
Whose Name was writ in Water: 24 February 1821»

(«Questa Tomba / contiene tutto ciò che fu Mortale / di un / giovane Poeta inglese / il quale / sul suo letto di morte, nell’amarezza del suo cuore / per il Malvagio Potere dei suoi Nemici / desiderò / che queste Parole / venissero incise sulla sua Lapide: / Qui giace colui / il cui Nome fu scritto sull’Acqua: 24 Febbraio 1821»)

 

«Malvagio Potere dei suoi Nemici» si riferisce al fatto che le opere di Keats non vennero accolte positivamente dalla critica. Lord Byron avrebbe infatti scritto, mesi dopo, che la responsabilità di quella giovane morte fosse interamente da imputare alle critiche negative fatte da John Wilson Croker su The Quarterly Review: «Who killed Jonn Keats? I, says the Quarterly Review».

Sette settimane dopo il funerale, Percy Bysshe Shelley scriverà il poemetto Adonais, dedicato a Keats: «I weep for Adonais – he is dead!» («Piango per Adonais – è morto!»). Qui sia Roma che il cimitero simbolizzano l’eternità: Adonais, cioè Keats, è eterno perché eterno è il luogo in cui giace.

In occasione del duecentesimo anniversario dalla morte di John Keats, non possiamo che affermare quanto scritto da Shelley. La presenza del giovane poeta inglese è ancora tangibile tra le stanze di quell’appartamento di Piazza Navona, oggi “Keats-Shelley House”: la sofferenza è ancora concreta, l’aria trasuda morte e dolore. Ma la poesia continua ad aleggiare con forza e si incarna oggi in quella stele alla cui ombra giace «ciò che fu mortale» del poeta.

Oscar Wilde dedicherà a questa tomba un sonetto nel quale si sottolinea il sempiterno cordoglio che perdura e che ci appare sempre rinnovato. La natura tutta si piega a quest’afflizione, vigilando ancora su quelle spoglie:

 

«Nessun cipresso fa ombra sulla sua tomba, nessun funereo tasso,
Ma le dolci viole, lacrimando rugiada,
Ondeggiano sulle sue ossa una ghirlanda eternamente in fiore»

Lucia Cambria

Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.