Con l’entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania, il 10 giugno 1940, il governo – su iniziativa dell’allora Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti del Ministero dell’Educazione Nazionale – aveva approvato la legge sulla protezione delle cose di interesse artistico, storico, bibliografico e culturale della Nazione in caso di guerra, la quale autorizzava i Soprintendenti ad agire con misure straordinarie per difendere il patrimonio culturale. Nel frattempo era stata disposta la chiusura dei musei e delle gallerie italiane e l’imballaggio delle principali opere d’arte.
Fino al luglio del 1943 il problema della tutela del patrimonio artistico italiano fu affrontato in termini di difesa dagli eventuali danni derivanti dalla guerra aerea. Secondo le disposizioni ministeriali, si provvide a trasportare le opere d’arte più preziose – appartenenti a musei, chiese e palazzi – nei ricoveri periferici, distanti dalle zone di guerra e per questo ritenuti più sicuri. Invece le opere di alto pregio che non potevano essere spostate a causa delle dimensioni o per la loro delicatezza e quelle di secondaria importanza sarebbero state protette in sede. I luoghi dei ricoveri furono scelti secondo degli specifici parametri di sicurezza: in primis la posizione geografica, la quale doveva essere ben distante dai centri industriali, ferroviari o militari; in secondo luogo furono prese in considerazione le caratteristiche della struttura che, oltre ad essere solida, doveva essere priva di umidità, in modo da non far subire danni conservativi alle opere. Il loro trasferimento fu molto difficoltoso e avvenne con grande pericolo: le opere furono trasportate con mezzi di fortuna in quanto i veicoli disponibili erano utilizzati per questioni militari; inoltre, le strade da percorrere per arrivare ai luoghi prescelti per il loro ricovero erano le più esposte agli attacchi aerei, ma nonostante ciò si riuscì nell’intento.
Questo è ciò che accadde in Italia a partire dal 1940; una delle vicende più note è quella che vede protagonista Pasquale Rotondi per i ricoveri delle opere d’arte nelle Marche a Sassocorvaro e Carpegna, per il quale è stato anche realizzato un bel documentario dal titolo La lista di Pasquale Rotondi.
Forse meno noto è, invece, ciò che avvenne nel Lazio. Il protagonista iniziale della vicenda fu Italo Vannutelli, consegnatario ed economo del Museo di Palazzo Venezia che negli anni della guerra fu incaricato dalla Soprintendenza alle Gallerie del Lazio di seguire il lavoro di protezione delle opere d’arte. Il compito svolto da Vannutelli si apprende da due Relazioni da esso redatte nel 1944, le cui informazioni sono state pubblicate nel 2010 da Paola Nicita nel testo La tutela in tempo di guerra. Dai primi di giugno del 1940, Vannutelli insieme ad Italo Gismondi della Soprintendenza alle Antichità di Ostia, ebbe l’incarico di ispezionare due dei ricoveri che sarebbero serviti per nascondere le opere: si tratta del Forte Sangallo di Civita Castellana (VT) e Casamari (FR). Si doveva procedere immediatamente al loro trasferimento.
Il primo trasporto avvenne il 21 giugno del 1940, in cui partirono per Civita Castellana le opere della Galleria Borghese, mentre il giorno successivo quelle del Museo di Palazzo Venezia furono trasferite a Casamari. In totale il Forte di Civita Castellana accolse 281 casse con le opere più importanti delle gallerie Borghese, Corsini, Spada, del Museo di Palazzo Venezia, della Calcografia, del Museo Artistico Industriale, dell’Accademia di San Luca, del Conservatorio di Santa Cecilia, del Museo di Castel Sant’Angelo (già custodite a Nepi) e delle chiese di Roma e del Lazio. Il rifugio di Casamari ospitò 94 casse con oggetti del Museo di Palazzo Venezia e 7 casse con opere delle chiese di San Lorenzo in Lucina, San Marcello e di Santa Maria del Popolo. I due ricoveri furono custoditi e sorvegliati dal personale delle gallerie statali e fu inoltre assicurata la presenza di carabinieri sul posto. Lo stato di conservazione delle opere era periodicamente costatato da accurate ispezioni svolte dal Soprintendente De Rinaldis, insieme al restauratore Carlo Matteucci e a Vannutelli. Durante le verifiche compiute a Civita Castellana, le opere furono sempre trovate in uno stato discreto, solamente alcune tracce di tarli fecero optare per togliere le cornici dalle casse. Per il rifugio di Casamari la situazione trovata era ben diversa, in quanto il restauratore Matteucci nel marzo del 1941 riscontrò l’effetto dell’umidità su alcuni pastelli attribuiti a Rosalba Carriera, la cui carta si era piegata e stava per aderire ai vetri. Effettivamente il ricovero di Casamari fin dall’inizio non possedeva del tutto le caratteristiche necessarie per accogliere le opere, in quanto una parete di un grande stanzone dove sarebbero state collocate le casse mostrava evidenti tracce di umidità; al fine di rendere il luogo più idoneo, la parete in questione fu ricoperta con del catrame ma a quanto pare ciò non bastò. Oltre ai pastelli di Rosalba Carriera – subito riportati a Roma – a farne le spese furono anche alcuni dipinti su tavola, fra questi quello più danneggiato fu la Madonna addolorata della galleria Barberini, all’epoca attribuito a Giusto di Gand, il quale risultò «contorto al punto da spezzare la cornice». Non si poteva di certo rischiare di compromettere ulteriori opere, quindi il Soprintendente De Rinaldis insieme a Federico Hermanin, conservatore onorario del Museo di Palazzo Venezia, decise di spostare al più presto tutti gli oggetti d’arte più sensibili all’umidità e di lasciare in loco solamente le casse contenenti ceramiche, porcellane e oggetti in metallo.

Intanto nel 1942 il Ministero aveva ordinato il tempestivo allontanamento dalla città di quelle opere «di secondaria importanza» che erano rimaste in situ. A tal punto bisognava necessariamente trovare un nuovo ricovero: doveva essere collocato al sud di Roma, sulla strada per Casamari, in modo da poter trasportare senza troppa difficoltà anche le casse ivi conservate. La scelta non fu semplice: molti dei paesi intorno Roma erano situati vicino fabbriche di armi, campi di aviazione o sedi di comandi militari. Alla fine si individuarono due edifici di Genazzano, un paese distante solamente 45 km da Roma e che aveva il vantaggio di essere ad essa unito tramite la ferrovia e soprattutto di essere raggiungibile da tre diverse direzioni: Tivoli, Palestrina e Valmontone (una caratteristica sicuramente importante in tempo di guerra, quando spesso le strade erano interrotte a causa dei bombardamenti). I due edifici di Genazzano scelti per i ricoveri furono il convento agostiniano di San Pio e il convento di Santa Maria del Buon Consiglio; entrambi dotati di ampie pareti e soffitti molto alti, potevano consentire di togliere le statue lignee e i dipinti dalle casse per esporli all’aria, permettendone dunque una buona conservazione.
I trasferimenti per trasportare le opere da Roma e da Casamari iniziarono a gennaio del 1943 e si conclusero a giugno dello stesso anno; in totale furono effettuati 24 viaggi. Inutile dire che si tentò di svolgere il tutto nella maniera più sicura possibile, pertanto nei luoghi dei ricoveri fu istituita una sorveglianza fissa con la presenza di due carabinieri. Al convento di San Pio furono conservati 224 dipinti del Museo di Palazzo Venezia, 43 dipinti della Galleria Borghese e della Galleria d’Arte Antica di Palazzo Corsini e fu inoltre trasferito tutto il tesoro di oggetti d’arte decorativa del Museo di Palazzo Venezia, comprendente di 46 sculture lignee medievali e rinascimentali, 5 marmi, 39 mobili, 26 cassoni, 115 arazzi e paliotti, 2584 tra servizi di porcellana, ceramiche e terrecotte, 717 stoffe antiche, 454 armi, 629 oggetti d’argento, 129 avori, 30 oggetti di oreficeria, cammei e gemme, 5254 sigilli, monete e medaglie, 20 cofanetti in pastiglia, 7 croci processionali medievali e 26 strumenti musicali; oltre ciò furono accolti anche 12 arazzi della Camera dei Deputati che, insieme a quelli del Museo di Palazzo Venezia, furono avvolti in rulli. Alle pareti furono sistemati tutti gli oggetti di grandi dimensioni, mentre quelli più piccoli e delicati furono conservati in 98 casse. Nel convento di Santa Maria trovarono rifugio 316 dipinti di proprietà delle gallerie Cosini, Borghese, Spada, del Museo di Tarquinia, del Ministero dell’Interno e della Camera dei Deputati, i quali furono tutti appesi alle pareti.
Nello stesso periodo – gennaio del ’43 – la direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, Palma Bucarelli, fece mettere al riparo ben 672 opere del suo museo all’interno di Palazzo Farnese a Caprarola (VT). Nello stesso luogo trovarono rifugio anche dei beni appartenenti ai Savoia e tre casse contenenti tre preziosi dipinti di Antonello da Messina: il Trittico del Museo Regionale di Messina, l’Annunciazione del Museo di Palazzo Bellomo di Siracusa e l’Annunciata di Palazzo Abatellis di Palermo, depositati nel palazzo farnesiano dall’Istituto Centrale del Restauro di Roma, luogo in cui si trovavano dal 1942 a seguito di una mostra.
Mentre ciò avveniva, il Soprintendente De Rinaldis capì che ormai neanche il ricovero di Civita Castellana era più sicuro, quindi scelse di trasferire i beni al Palazzo dei Principi di Carpegna, nelle Marche, uno di quei luoghi scelti da Pasquale Rotondi per mettere in salvo le opere d’arte italiane. Il 14 giugno 1943 De Rinaldis e Vannutelli partirono alla volta di Carpegna, portando 29 casse contenenti 79 dipinti, sistemate su un autotreno scortato da due motociclisti della polizia stradale. Furono così trasferiti i dipinti di maggior pregio delle gallerie Borghese e Corsini, del Museo di Tarquinia e i capolavori di Caravaggio delle chiese romane di San Luigi dei Francesi e Santa Maria del Popolo. Le casse furono consegnate il 15 giugno a Rotondi. De Rinaldis decise di lasciare a Civita Castellana la Deposizione Borghese di Raffaello perché temette che il lungo viaggio potesse recare qualche danno alla tavola, la quale all’interno del Forte era custodita nel luogo più sicuro, in un piccolo locale a volta.

Intanto un reparto dell’aviazione tedesca si installò in un albergo di Genazzano, non molto lontano dai ricoveri. Nel luglio del ’43, con lo sbarco degli alleati in Sicilia e la caduta del regime fascista, ebbe inizio una seconda fase della guerra. Con la lenta risalita del fronte lungo la penisola da parte degli Alleati, fu necessario rivedere rapidamente la politica di protezione delle opere d’arte: i ricoveri nelle campagne non erano più sicuri.

Anna D’Agostino
Classe '93, laureata in Storia dell'Arte con una tesi in Museologia sull'arredamento dell'Ambasciata d'Italia a Varsavia dalla quale è scaturita una pubblicazione in italiano e polacco. Prosegue la ricerca inerente l'arredamento delle Ambasciate d'Italia nel mondo grazie a una collaborazione con la DGABAP del Mibact. É iscritta al Master biennale di II livello "Esperti nelle Attività di Valutazione e di Tutela del Patrimonio Culturale".